Alla scomparsa di mons. Raniero Sarnari (24 gennaio 1916) nei mesi di sede vacante (leggi qui l’articolo in occasione dei cento anni dalla morte), periodo contrassegnato dagli eventi bellici che stavano sconvolgendo l’Europa, la diocesi maceratese fu retta dal vicario capitolare mons. Giuseppe Jacoboni e, alla sua morte, da mons. Roberto Soldini, mentre a Tolentino il capitolo nominò l’arcidiacono Pietro Tacci. Scelto tra i canonici della cattedrale di Pesaro, mons. Romolo Molaroni, 58 anni, fu chiamato a raccogliere l’eredità dell’indimenticabile suo predecessore.

mons. Romolo Molaroni
mons. Romolo Molaroni

Eletto il 30 settembre 1916, aspettò fino al 25 marzo 1917 per prendere possesso della diocesi. L’attesa fu dovuta all’espletamento delle pratiche per ottenere l’exequatur, cioè l’assenso delle autorità governative italiane per rendere esecutiva la bolla pontificia. Le informative raccolte dalla Procura generale del Re e inviate al Ministero furono pienamente positive sul canonico Molaroni. Come si legge in una nota dei Carabinieri Reali di Macerata la nomina «ha fatto sul pubblico ottima impressione e ciò anche perché è giunta notizia da Pesaro che si tratta di un ottimo e stimatissimo sacerdote e di ottimo cittadino, dotato di ottime qualità sotto ogni rapporto».

Il settimanale cattolico Il Cittadino (7 ottobre 1916), nel tracciare il profilo del nuovo vescovo, lo definisce «d’intelligenza vivace e pronta, di vasta e soda cultura, di modi squisitamente cortesi, di vita esemplare specchiatissima» ed evidenzia la sua prudenza, il suo zelo pastorale, l’impegno costante in tutti gli uffici ricoperti, la sua generosità nel promuovere opere di azione sociale. Fu parroco, rettore del seminario, insegnante di Storia ecclesiastica ai teologi e di fisica e chimica al liceo. In occasione del solenne ingresso in diocesi elargì generosamente 50 lire alla Croce verde, alle Cucine economiche, all’asilo La Pietà, al Comitato per l’assistenza religiosa e civile degli orfani di guerra, al Ricreatorio festivo salesiano.

Lo stemma di mons. Molaroni
Lo stemma di mons. Molaroni

Mons. Luca Piergiovanni, vicario del Capitolo pesarese, ricordando il suo maestro (Il Cittadino 24 marzo 1917), ne elogiava la cura e l’impegno con i quali era solito affrontare ogni attività, dalla più semplice alla più complessa, senza ricorrere a mezze misure, senza perdersi «in vane compiacenze, ma sempre con il proposito fisso di fare di più e di meglio». Anche mons. Otello Gentili in Macerata Sacra lo definisce vescovo «di grande pietà e di vita austera, cultore di belle lettere», ma la sua attività pastorale fu fortemente condizionata dalla guerra, per cui «non poté compiere grandi opere, ma solo lasciare il ricordo più caro di una carità ardente e di una prudenza a tutta prova». Il suo episcopato, infatti, fu breve, appena due anni, coincidenti proprio con gli eventi più drammatici della guerra che videro l’Italia passare da un’azione di contrasto e di resistenza ad un disastroso ripiegamento sul Piave, fino alla controffensiva del 1918 che portò alla vittoria. Nei confronti della guerra non si discostò dalla linea seguita dal suo predecessore e mantenne un atteggiamento moderato, aperto alla collaborazione con le autorità, impegnato a sostenere le opere assistenziali connesse con lo stato di belligeranza, ad incoraggiare e a tenere alto lo spirito di resistenza.

Ancora un'immagine dello stemma
Ancora un’immagine dello stemma

Nella sua prima lettere pastorale del febbraio 1917, incentrata sul ministero del vescovo, sui suoi doveri di pastore, sottolineava che, essendo anche cittadino, amava Dio e amava il proprio paese. Non mancò di rivolgere il suo pensiero ai valorosi soldati che in spirito di sacrificio stavano combattendo per la patria, ai sacerdoti e ai chierici in trincea e ai prodi caduti «per la grandezza dell’Italia». Ebbe modo di dimostrare la sua autorevole collaborazione con le autorità nel maggio del 1917 quando raccomandò pubblicamente al clero di diffondere il D. Luogotenenziale n. 682/1917 con il quale veniva censito il grano esistente e venivano sollecitati proprietari e agricoltori a cederne una parte alla Commissione provinciale di requisizione. In stretto contatto con la Santa Sede con spirito di padre e di pastore si interessò della sorte di molti militari maceratesi per i quali le famiglie da tempo non avevano più notizie, come testimoniano le sollecite risposte della Segreteria di Stato vaticana e i suoi appunti nell’agenda quotidiana. Mantenne anche stretti rapporti epistolari con i sacerdoti richiamati alle armi, i quali con rispetto filiale lo informavano e si confidavano.

Mentre si stava consumando la disfatta di Caporetto il 3 novembre del ’17 sentì la necessità di esortare ancora una volta i fedeli ad avere fiducia in Dio, a ricorrere all’intercessione della beatissima Vergine, invocata in quel periodo come la «la gran Castellana che l’Italia onora» e a compiere concordi e uniti il proprio dovere, solidali con i fratelli in armi. Nel dare appuntamento ogni sera nel santuario della Madonna della Misericordia per la recita del Miserere, con toni decisamente patriottici così si esprimeva: «Mentre il nemico calpesta il sacro suolo della patria anche chi la guerra non ha voluto deve concorrere con tutte le forze alla difesa della madre comune; deve ardentemente pregare che sia concesso ai nostri soldati valore e forza di respingere la furia nemica oltre i monti ed oltre il mare».

In un momento in cui l’avvenire per l’Italia sembrava offuscato e senza speranza, intitolò la lettera pastorale della quaresima del 1918 “Abbiate fiducia in Dio”, indicando nella Fede e nella Provvidenza la via sicura per raggiungere la luce e nell’obbedienza alle prescrizioni governative il conseguimento del bene comune. Al pressante e drammatico appello rivolto a tutti i Vescovi dal Guardasigilli Sacchi (8 aprile 1918) per sollecitare la cooperazione del clero a fortificare lo spirito di resistenza e di sacrificio, il riscontro del vescovo Molaroni fu immediato, confermando che sia con le parole che con i fatti i sacerdoti avrebbero continuato «in quest’opera con l’aiuto del Cielo procurando di costituire col popolo e coi figli suoi combattenti un solo esercito per conseguire la vittoria delle nostre armi, ed una pace durevole».

Contestualmente indisse un triduo propiziatorio presso la Misericordia per affrettare il giorno radioso della pace, grazie alla quale tutti avrebbero potuto dedicarsi «con maggiore lena a rendere più bella e più invidiabile la nostra Italia, sempre grande del suo primato nelle arti, nelle scienze, nella Religione». L’afflusso dei fedeli al Santuario Mariano fu continuo e straordinario il numero di coloro che si accostarono ai sacramenti. Ricevette l’apprezzamento delle autorità civili nel luglio del 1918 per l’azione patriottica svolta e nella sua risposta al Pretore di Macerata rinnovò il suo impegno al fine di ottenere dal Signore la grazia della vittoria. E salutò la fine della guerra e la vittoria italiana il 5 novembre 1918 con un solenne Te Deum in una cattedrale «imponente per la calca di popolo», come scrisse Il Cittadino (9 novembre 1918), dove pronunciò «un discorso vibrante di fede e di patriottismo», invitando ad elevare a Dio la lode per il trionfo finale ottenuto e per l’adempimento delle aspirazioni nazionali. Oltre alle celebrazione e al ricordo dei caduti, bisognava anche ricostruire e curare le ferite provocate dal crudele evento bellico. Da padre e pastore sensibile, sollecitò le autorità per un ritorno immediato di tutti i sacerdoti militari attesi nelle loro parrocchie. Mons. Molaroni morì improvvisamente il 12 agosto 1919 a Quintodecimo, frazione di Acquasanta Terme in provincia di Ascoli, dove si era recato per una cerimonia.
Fonti:
Archivio storico diocesi di Macerata
Archivio di Stato Macerata – Prefettura
Il Cittadino 1916-1919
Gentili O., Macerata Sacra, Roma, 1967
Bruti Liberati L., Il Clero italiano nella Grande Guerra, Roma, 1982
La Chiesa e la Guerra. I cattolici italiani nel Primo Conflitto Mondiale, Humanitas n. 6, 2008.
Bignami B., La Chiesa in trincea. I preti nella Grande Guerra, Roma, 2014

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