Maurizio Bruè

Nell’abazia benedettina di Subiaco il 14 maggio 2016 si è celebrata la professione solenne di don Frediano Salvucci. La celebrazione è stata presieduta dall’Abate don Mauro Meacci. Numerosi gli amici di Tolentino e i parenti di Colmurano che sono stati presenti. Abbiamo posto qualche domanda allo stesso don Frediano per farci raccontare la sua storia, che lo ha visto prima sacerdote diocesano e poi, da oggi, monaco benedettino per sempre.

Lei è nato a Colmurano, dove, dal 1904 al 1957, ha operato come parroco don Quirico Gesuelli: sotto la sua guida sacerdotale, in un paese di 1500 persone, si sono avute in quel periodo oltre 60 fra sacerdoti e religiose. Anche la tua vocazione fa parte di questa messe così straordinaria?
Certamente, sebbene io mi ritenga più nipote che figlio spirituale di don Quirico. Infatti mio padre nella sua gioventù fu molto vicino alla parrocchia, ereditando dal suo santo parroco una fede limpida e forte che trasmise a noi quattro figli. Della serie dei preti di Colmurano al momento io sono il penultimo e mio fratello, fr. Marino, l’ultimo.

A differenza di don Quirico, che passò tutta la sua vita sacerdotale a Colmurano, lei è stato chiamato in più comunità, anche missionarie. Quali i ricordi più belli che conserva del suo cammino sacerdotale?
Questa è una domanda molto impegnativa, giacché mi costringe a ripercorrere i 40 anni del mio presbiterato. Direi che i primi 8 anni, con brevi periodi in tre parrocchie come viceparroco, furono un apprendistato un po’ duro ma molto utile.
Poi la missione in  Argentina dal 1983 al 1993, condivisa con altri confratelli maceratesi, fu bella, avventurosa e ricca di buoni risultati: come si sa, di questo si parla nel libro “Quaranta anni in Argentina”.
Al ritorno in Italia nell’anno 1993, ci fu da ricominciare daccapo. Quasi sempre un missionario fa più fatica al rientro che all’andata, e fu così anche per me a causa di alcuni problemi di diverso genere che incontrai prima a Recanati, poi a Tolentino. Tuttavia il Signore ha voluto incamminare bene le due comunità di Cristo Redentore e di San Catervo, ora guidate da due bravi parroci.
La realizzazione di diverse strutture pastorali in Argentina e dei grandiosi restauri di Tolentino sono merito più di molti e generosi benefattori che mie o dei miei confratelli, che raramente avevamo soldi in tasca, ma soprattutto sono opera della Provvidenza, la quale non mi ha fatto mai mancare quanto era necessario per i lavori, per la carità e per la vita parrocchiale. Guardando indietro, dunque, posso dire che anche nella mia vita sacerdotale si è rinnovato quel “miracolo delle mani vuote” di cui parla Bernanos nel “Diario di un curato di campagna”.

Poi ha lasciato la Diocesi per rinchiudersi nel monastero di Subiaco. Quale motivo l’ha spinta a questa scelta?
Arrivato ai 60 anni, nel 2010 c’è stata questa svolta nella mia vita, fondamentalmente perché, facendo un bilancio, mi resi conto che avevo lavorato molto ma non avevo pregato abbastanza, avevo parlato di Dio a molte persone ma non avevo parlato a Dio di quelle stesse persone, come invece insegna S. Agostino. Questo aveva un po’ frenato il risultato spirituale della mia attività, specialmente in mezzo ai giovani. Quindi dovevo ricuperare la preghiera e la dimensione contemplativa: d’ora in poi avrei soprattutto pregato per la mia gente, per la Chiesa e per il mondo.
La scelta di Subiaco è dovuta al fatto che qui mi hanno accolto nonostante la mia età, ma è stato bello venire nel primo monastero fondato da San Benedetto, il “Protocenobio dell’Occidente”.

In una realtà sociale che è portata alla mobilità e al relativismo, cosa significano per lei i voti perpetui di povertà, castità, obbedienza e, ancor più, quello di stabilità?
L’era della comunicazione globale produce un continuo cambiamento di mentalità, per cui alcuni valori che ieri erano accettati oggi sono rifiutati, il confine fra il bene e il male viene continuamente spostato, e il cristianesimo potrebbe essere ancora accettato ma non più le sue esigenze morali. Ma quale potrà essere il risultato di tale arbitrio? In questo contesto i voti di povertà, castità e obbedienza, espressi in una radicale sequela di Cristo, sono come un’àncora che nella tempesta mantiene la nave attaccata alla terraferma e le impedisce di andare alla deriva. Significano la volontà di rimanere uniti a Cristo e a tutto quello che Egli ci propone; esprimono la certezza che anche il nostro mondo, per quanto voglia essere moralmente autonomo ed emancipato dalla religione, ha bisogno della salvezza che può venire solo da Cristo; in questo senso danno una sicurezza ideale e morale che è confortante per tutti.
Il voto di stabilità poi, che fanno i monaci, è il legame inscindibile alla propria comunità fino alla morte ed in questo tempo costituisce la prova che possono esserci rapporti armonici e duraturi anche nella famiglia ed in in ogni comunità umana.     

Può rivolgersi ai giovani perché nel loro orizzonte di vita possano interrogarsi se seguire totalmente Cristo?
A voi giovani in particolare direi questo.
Nella Regola di San Benedetto il prologo e i primi sette capitoli contengono un programma di vita originale ed affascinante, anche se alquanto duro: i valori evangelici (amore al silenzio, spirito di preghiera, umiltà, obbedienza, sobrietà, carità fraterna, ecc.) sono ripresi secondo un metodo adatto a formare la persona, che risulta valido ormai da 1500 anni.
Infine, se la proposta di seguire totalmente Cristo nella vocazione religiosa o monastica è solo per alcuni, invece è per tutti la proposta di formare in sé stessi il carattere del cristiano. Ma questo si ottiene soltanto avendo dei buoni maestri, conoscendo le principali virtù evangeliche e cercando di praticarle in un lungo tirocinio. È un lavoro possibile, con la grazia di Dio, e darà una grande gioia, poiché permetterà di sentirsi liberi e di rimanere sempre al timone della propria vita.

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