In Italia, i centri antiviolenza rischiano la chiusura per mancanza di fondi. A lanciare l’allarme è da tempo l’associazione nazionale Dire-Donne in rete contro la violenza, quasi vent’anni di attività e 75 strutture – tra centri antiviolenza e case rifugio – su tutto il territorio nazionale. Che fine fanno le risorse destinate dalla legge 119 del 2013 (nota come decreto femminicidio) alle Regioni per queste strutture che accolgono, assistono e aiutano le donne vittime di maltrattamenti e abusi? Si tratta, secondo stime del governo, di 188 centri antiviolenza e 164 case rifugio.

La legge di bilancio 2017 approvata dal governo il 15 ottobre prevede complessivamente 60 milioni alle Pari opportunità da destinarsi a piano antitratta, piano contro la violenza alle donne, sostegno all’imprenditoria femminile. L’articolato dovrebbe approdare alle Camere giovedì; in quell’occasione sarà possibile sapere quante risorse andranno effettivamente a sostegno del contrasto alla violenza sulle donne. Intanto, lo scorso 13 ottobre, secondo quanto riferito da un quotidiano nazionale, il ministro con delega alle Pari opportunità Maria Elena Boschi, durante un’audizione davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali, Lavoro e Affari sociali della Camera, ha denunciato che da una verifica sull’utilizzo dei 30 milioni stanziati ad oggi dal governo alle Regioni un terzo, circa 10 milioni, non sarebbero stati spesi, o per mancanza di bandi o perché impiegati per altre finalità. Di qui la richiesta del ministro ai governatori di una fotografia chiara e aggiornata entro fine mese.

Un quadro parziale e disomogeneo. Lo sa bene Actionaid, organizzazione internazionale indipendente che si batte per la tutela dei diritti e che nel 2015 ha creato in collaborazione con Dataninja la piattaforma open data Donne Che contano #donnechecontano. Obiettivo del portale rendere facilmente accessibili attraverso una banca dati online, infografiche e mappe interattive, le informazioni regione per regione. Abbiamo chiesto a Rossana Scaricabarozzi, policy officer per i diritti delle donne dell’organizzazione, di aiutarci a fare il punto.

«Anzitutto – ci spiega, premettendo di essere in attesa di conoscere la ripartizione dei nuovi fondi previsti dalla Manovra – i 30 milioni sono in realtĂ  28.5». La legge 119/2013 stabiliva lo stanziamento di 16.5 milioni a sostegno dei centri antiviolenza per il biennio 2013 – 2014, mettendo successivamente a regime circa 10 milioni l’anno. «Nell’autunno 2014 sono stati trasferiti nelle casse regionali questi primi 16.5 milioni, secondo una ripartizione decisa in Conferenza Stato-Regioni. Ulteriori 12 milioni sono stati messi a bando lo scorso marzo. Per questi è in corso la valutazione delle proposte ricevute e i risultati verranno comunicati a novembre».

Nel frattempo, prosegue Scaricabarozzi, «abbiamo cercato di monitorare come siano stati utilizzati questi primi 16.5 milioni, ma solo per dieci enti locali è possibile consultare la lista delle strutture che ne hanno beneficiato». Di questi, cinque regioni – Veneto, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Puglia – hanno pubblicato on line i nomi dei centri antiviolenza e gli importi ricevuti. In Toscana le liste sono disponibili solo per le due ex province di Firenze e Pistoia. Per altre amministrazioni, i dati sono stati dedotti consultando atti amministrativi (Abruzzo) o per via dell’esiguo numero di strutture presenti sul territorio (Valle d’Aosta e Basilicata). Dati irreperibili nelle rimanenti Regioni anche se, rispondendo al sollecito del ministro Boschi, il presidente del Molise, Paolo di Laura Frattura, ha appena reso noto lo stanziamento di 188mila euro, tra fondi del governo e stanziamento regionale, per la realizzazione e la gestione di un centro antiviolenza e di una casa rifugio.

Nell’analisi dei dati raccolti, colpiscono le differenze regionali. Il finanziamento medio per centro antiviolenza e casa rifugio varia da un massimo di 60mila euro in Piemonte a un minimo di 6mila in Abruzzo e Val d’Aosta, con valori pari a 30mila in Veneto e Sardegna, 12mila in Puglia ed ex province di Firenze e Pistoia, 8mila in Sicilia. Una disomogeneità che, secondo l’esperta, «può creare o inasprire disparità territoriali nell’assicurare servizi antiviolenza adeguati», e non solo per numero. Il rischio è che vengano finanziati anche centri privi della necessaria competenza e di personale specializzato. Dall’esame delle delibere regionali emerge infatti che in diversi casi i criteri minimi richiesti alle strutture per accedere ai bandi sono tre anni di esperienza e non cinque come stabilito dalla Conferenza unificata all’indomani dell’approvazione del Decreto di riparto dei fondi 2013 – 2014.

Per Scaricabarozzi, «è essenziale prevedere una mappatura accurata dei centri antiviolenza, la loro precisa localizzazione sul territorio, una stima dei fondi necessari al loro funzionamento. Le Regioni dovrebbero poi pubblicare un resoconto completo sull’uso dei finanziamenti». Tutti gli atti e i dati dovrebbero essere in forma aperta, accessibili online sul sito delle Regioni e su quello del Dipartimento Pari opportunità. «La battaglia di trasparenza – conclude l’esperta – è una via per assicurare l’efficacia della spesa e dunque per arrivare a prevenire e ridurre nel tempo la violenza sulle donne».

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