La Comunità di Capodarco nasce nel Natale del 1966. Celebra i suoi cinquant’anni con una due giorni di convegni, iniziati ieri, venerdì 11 novembre, che si concluderanno nella giornata odierna (consulta qui il programma). La radice della nascita è da collocare nel mondo del cattolicesimo sociale. Nei viaggi a Lourdes e Loreto – unica occasione perché i disabili possano uscire dagli Istituti dove sono isolati – un sacerdote, don Franco Monterubbianesi, intuisce che qualcosa può cambiare nella vita di molti ragazzi e ragazze che, con la scusa d’improbabili terapie riabilitative, di fatto, sono bloccati negli “istituti”, ambienti chiusi e inutili: sottoposti a rigide regole istituzionali, separati tra maschi e femmine, non hanno futuro.

Don Franco Monterubbianesi
Il fondatore della Comunità don Franco Monterubbianesi

L’inizio è spontaneo, precario, utopico. Ben presto i tredici disabili che abitano con don Franco la villa abbandonata nelle Marche (Capodarco – Comune di Fermo) diventano oltre cento. Provengono da varie regioni d’Italia: Campania, Friuli, Puglia, Sardegna, Umbria. Un secondo gruppo numeroso di giovani (italiani e stranieri) partecipa all’esperienza che oscilla tra una “comune” e una “comunità”: sono i ragazze e le ragazze del ’68 “minore”. Se molti dei giovani contestatori si erano dedicati alla lotta politica, molti altri si erano diretti verso il sociale; altri ancora si dedicheranno al mondo della cultura e della comunicazione. Il clima è pieno di fermento e coltiva un orizzonte di ampio respiro: in parole esplicite (anche se oggi appaiono “puerili”): occorre cambiare la società. Nell’esperienza limitata di una comunità nata nella periferia del mondo, si celebrano i primi matrimoni tra persone disabili cui seguiranno figli nati in comunità, l’approccio al lavoro (sorgeranno cooperative di lavoro), alla cultura (molti disabili riprendono gli studi fino all’Università). La comunità vive e cresce insieme: sono tutti un po’ fondatori perché sono impegnati nel realizzare il sogno che avevano voluto.

Il principio base della Comunità è accogliere. Significa occuparsi della persona con tutta la sua storia. Questo moto dell’anima vale per chi si conosce e si stima, ma anche per ogni creatura vivente. Necessario è un altissimo concetto di persona, capace di fugare paure, pregiudizi, egoismi. Le radici dei motivi dell’accogliere (siano esse politiche o emotive) non sono moltissime: amore, amicizia, compassione, volontà di supere il male e il dolore, ma anche la visione di una società giusta, benevola, coerente, ugualitaria. Nella comunità queste radici non sono soggette a selezione: ognuno esprime il senso dell’accoglienza, facendo appello alla propria storia e alle proprie convinzioni, con l’impegno del rispetto reciproco e della convivenza possibile.

Il secondo moto dell’anima è condividere. Condividere significa entrare nella vita dell’altro e farsi condizionare la propria. Il passaggio è delicato. La condivisione comunitaria è semplicemente vivere la vita insieme con comuni ideali: nella stessa casa, con lo stesso cibo, rispettando gli orari essenziali della giornata. In alcuni momenti tale convivenza è oggettivamente difficile; ha il risvolto positivo di sentirsi protetti dal gruppo e sicuri per ogni circostanza. Un terzo moto dell’anima per l’amore del prossimo è progettare futuro. Questa dinamica indica che l’interessamento dell’amore guarda lontano. Cerca soluzioni e prospettive. Inventa percorsi; procura risorse. Anche nelle situazioni più difficili c’è sempre uno spiraglio che fa guardare lontano. Probabilmente non darà soluzioni definitive, ma mette in moto doni e occasioni che altrimenti rimarrebbero nascosti.

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