Proponiamo in simultanea due contributi di persone espressione del nostro territorio che riflettono sulle prospettive della politica nazionale dopo il referendum del 4 dicembre 2016. Le riflessioni nascono da appartenenze e punti di vista diversi, ma si mantengono nell’alveo della discussione pacata e del confronto civile. L’intervento di Alberto Ardiccioni è accessibile a questo indirizzo.
La normativa referendaria in Italia ha un limite, quello di prevedere solo referendum abrogativi. Comunque il ricorso a questo strumento democratico negli ultimi decenni è stato frequente come frequentemente poi ne è stato disatteso l’esito, colpa dei legislatori e dei partiti politici.
Il 4 dicembre 2016 non si è votato per un referendum costituzionale, ma si è votato sul governo per scelta di chi ha voluto legare la sua sopravvivenza politica all’esito del referendum stesso. Oggi ne paghiamo le conseguenze.
È fuorviante pensare di ridurre i costi della politica senza ridurre gli enti inutili e senza ridurre il numero dei parlamentari. Un Senato delle regioni non consente risparmi strutturali e soprattutto falsa gli equilibri democratici. E questo gli italiani lo hanno capito. Diminuire il numero dei parlamentari sarebbe semplice, se ci fosse la volontà. Si vuole conservare il sistema bicamerale? Bastano cento senatori e duecento deputati. Si vuole il sistema monocamerale? Bastano 300 parlamentari. Le indennità? Equiparabili a quelle di dipendenti dello Stato, per esempio dei professori. O è ritenuto indecente per un parlamentare avere una indennità, che non è uno stipendio, pari alla retribuzione di un professore? E se poi il parlamentare vuole la pensione versi i contributi come tutti e vada in quiescenza a sessantasette anni.
Semplice. È ciò che avviene in tutta Europa. A maggior ragione dovrebbe avvenire in Italia per le note difficoltà economiche. E poi a stabilire l’indennità di carica non dovrebbero essere i beneficiari della stessa!
Non mi appassionano molto le leggi elettorali soprattutto quelle fatte in modo da favorire una parte, sempre quella che governa al momento della approvazione. Maggioritario o proporzionale in Italia hanno sempre fallito per il semplice fatto che non si è mai posto uno sbarramento serio e non è si è mai voluto il vincolo di mandato. Con sbarramento all’8% e con vincolo di mandato ogni sistema può andar bene. E i governi non cadrebbero come le foglie in autunno e i presidenti del Consiglio verrebbero scelti in base al voto degli italiani e non alle strategie dei capi di Stato.
Oggi la politica è a un bivio. O recupera il senso della misura e ristabilisce l’equilibrio tra i poteri dello Stato oppure si rischia la fine. C’è chi fa le leggi e chi deve applicarle. La confusione dei ruoli è assolutamente perniciosa.
Capisco però che tornare indietro non è semplice. Chi per interessi di parte qualche decennio fa ha abdicato alla supremazia della politica, ora è in estrema difficoltà e non appare in grado di uscire dal circolo vizioso nel quale è impelagato. Oggi in Italia il potere è nelle mani della magistratura e della finanza. La politica segue a capo chino.
Fare politica in questa situazione è difficile se non impossibile. E non ci sono più neanche le scuole di partito, perché non ci sono più i partiti. Ma la speranza è sempre l’ultima a morire. Ed allora speriamo che donne ed uomini di buon senso, vecchi o giovani che siano, si appassionino di nuovo alla politica. Perché in questo campo è necessaria l’irruenza positiva dei giovani ma anche, e forse soprattutto, la saggezza di chi giovane anagraficamente non è più.