Questo mese di maggio è tradizionalmente per molte parrocchie il mese delle Prime Comunioni. Lunghe file di bambini con la tunichella bianca ci ricordano con nostalgia con quale cuore e quale emozione ci dovremmo sempre accostare a ricevere il corpo di Gesù, per entrare sacramentalmente in comunione piena e profonda con Lui e con i fratelli. Poi però la vita gradualmente spariglia quelle file. Alcuni, sempre meno, continuano a comunicarsi e a vivere ogni domenica la Messa. Altri, sempre più, si perdono. Solitamente: prima smettono di confessarsi, poi per coerenza di comunicarsi, infine di andare a Messa. Quando si analizzano fenomeni che toccano le masse, ma anche l’intimo di ogni coscienza, è impossibile generalizzare e chi lo fa sbaglia di sicuro. Tanti sono i motivi per cui cambiano le cose nella vita e nel cuore delle persone. Però credo che una certa linearità in questo andamento malato della vita di fede di molti si possa diagnosticare e da una buona diagnosi nasce la cura.

Se la linea dell’abbandono della pratica di fede è per molti quella indicata, è saggio partire dall’inizio del fenomeno. Si impara a confessarsi in terza elementare, quando le occasioni di fare veri peccati e di farli con coscienza, premeditazione e passione sono poche. Si impara a confessarsi con un misto di gioia di sentirci considerare grandi e la difficoltà di trovare qualcosa di serio da confessare. Spiegare la confessione degli adulti ai bambini è quasi inutile, non hanno quell’esperienza del peccato legata alla sfiducia di vincerlo che solo la vita ti porta. I bambini sono ancora convinti che tutto è possibile e se promettono di non farlo più, ci credono! Poi si cresce e si sperimentano le ferite e le sconfitte nella lotta contro i nostri difetti e i nostri limiti. «Padre, prometto di non farlo più!» diventa una frase in cui crediamo sempre meno, fino a sentirci a disagio. Se devo confessarmi per ridire sempre le stesse cose, cosa ci vado a fare? Così si abbandona la confessione. Poi continuiamo a comunicarci, ma con un misto di senso di colpa e di banalizzazione del male: non è più un incontro esaltante, ma uno sfiorarsi sempre più vergognoso. Finché si smette, perché «che senso ha farla ancora?». Oppure si continua a fare la comunione senza entusiasmo, come se ci si potesse abituare impunemente a entrare in comunione con Dio.

Non so quanti tra i lettori di queste righe si riconosceranno in questa descrizione, ma per quelli che si sentono toccati e forse per tutti, è utile indicare con chiarezza dove sta l’errore. È nell’aver dimenticato o non avere mai conosciuto un passaggio importante della frase della confessione: «Padre, con l’aiuto della grazia di Dio, prometto di non farlo più». Tanta nostra catechesi è stata fatta, o più spesso recepita, come una lunga esortazione, un volontarismo dove Dio sta solo alla fine, a misurare e premiare o punire i nostri sforzi di bene. Invece la vita cristiana è una vita di alleanza con Dio, in cui il Signore è sempre vicino e coinvolto con il nostro vivere. La lotta al peccato e il superamento delle nostre fragilità non è un’impresa solitaria, ma un cammino da fare con Dio e con la Chiesa.

Tutta l’insistenza di Papa Francesco sul tema della misericordia sempre necessaria, non nasce da una sottovalutazione del peccato e della sua gravità, ma dalla coscienza che senza la grazia di Dio e la compagnia dei fratelli nella fede, non ne verremo mai fuori. Nessuno si salva da solo: né senza Dio, né senza gli altri. Per questo serve la preghiera e anche un cammino ed un’esperienza di Chiesa. Si va a fare la prima comunione in fila, vestiti uguali, con le mani giunte presi dall’emozione di fare comunione con Dio e tra di noi. Chi non vuol abbandonare questa ricchezza, continui a camminare insieme con i fratelli di fede, pregando perché Dio lo sostenga, vivendo l’umiltà di riconoscersi peccatore sempre bisognoso di perdono e mai sfiduciato che un passo in più verso il bene, con l’aiuto di Dio e dei fratelli, si possa realmente fare.

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