Il 24 settembre il nostro vescovo Nazzareno Marconi ci ha consegnato la sua lettera pastorale per il nuovo anno: «Annunciatelo dai tetti!». È un testo la cui brevità è sicuro antidoto verso una verbosità e iperproliferazione di scritti che, in questa civiltà dalla facile comunicazione, non risparmia nessuno, neppure il Magistero.

Il testo non ha affatto l’indole d’un cammino perentorio rispetto al quale non rimane che “seguire le istruzioni”; al contrario, si presenta come una “cassetta degli attrezzi”, uno spazio di sperimentazione nel cui ambito ogni Unità pastorale potrà esercitare il proprio discernimento responsabile, coltivando quanto lo Spirito ha già seminato e resistendo a ogni pigrizia spirituale.

In queste righe non intendo operare delle sottolineature che richiamino l’attenzione su alcuni passaggi della lettera, né, tantomeno, di abbozzare un commento o riflettere sui percorsi di catechesi lì accennati. Piuttosto lascio che la sua prima parte – l’introduzione proposta qui a fianco – mi ispiri dei pensieri in libertà; lì ho scorto l’anima appassionata d’un vescovo il cui cuore è già oltre il presente, in una terra che, irrorata dall’annuncio del Vangelo, mostra la sua natura trasfigurata.

«Annunciatelo dai tetti!». L’immagine del tetto che a noi è oggi familiare, richiama un luogo pieno di antenne, magari con qualche camino e lucernario, ma certamente senza uomini e donne che lo vivacizzano. Ma chi si occupa di archeologia cristiana ci fa sapere che non era così nell’antica Palestina di Gesù e ancora oggi, in alcuni villaggi, è possibile capire cosa fossero allora i tetti. Simili a bianche terrazze, essi erano luoghi quotidianamente frequentati dalla famiglia, dove di notte si poteva dormire e di giorno si conducevano molte utili attività. Naturalmente erano anche posti privilegiati per comunicare con i vicini e con quanti si trovavano ad attra- versare le strade sottostanti. Insomma, essi dovrebbero richiamare, in chi li immagina, luoghi che ospitano scene di vita quotidiana e feriale.

Dunque, il comando di Gesù ad annunciare il Vangelo dai tetti ha per noi il significato d’un impegno a proclamarlo senza timori in quei luoghi abituali che ogni giorno attraversiamo, magari sbadatamente e con scarsa coscienza che essi, invece, sono gli spazi in cui le necessità più vitali si manifestano e gli incontri con le persone sono più frequenti. Annunciare dai tetti il Vangelo non vuol dire conquistare pulpiti, né aumentare il volume della nostra voce o presidiare spazi pubblici scandendo slogan, ma fare dei nostri contatti giornalieri altrettante occasioni per farci prossimo e testimoniare il volto misericordioso del Dio di Gesù Cristo: il lavoro, la famiglia, le vie cittadine sono ugualmente luoghi dove l’annuncio del Vangelo acquista un’efficacia unica.

«Annunciamolo nelle piazze, sui social, a scuola, nel posto di lavoro», scrive il vescovo. Per il discepolo, annunciare dai tetti il Vangelo è ricongiungerlo alla vita che inizia con la sveglia del mattino e termina con lo sfumarsi dell’ultimo pensiero al calare del sonno serale. «Annunciatelo dai tetti!». Ma cosa annunciare? Confesso che non raramente incrocio cristiani che mi parlano d’uno strano dio; un dio che sottopone a controllo ogni nostro attimo di vita, che esige sacrifici per poi elargire premi, che sancisce divisioni tra “regolari” e “irregolari”, che reclama un dovere di culto come da sempre gli dei esigono dagli uomini, che pretende rinunce perché la vita non è già qui, che, identificandosi con delle nazioni, giustifica barriere di protezione. Questi incontri mi suscitano una reazione, forse solo emotiva e poco meditata, che mi spinge a dire che io non sono un credente in Dio, ma un amante del Dio di Gesù. Non mi affido a una generica divinità, magari ancora venata di concettualità pagane o metafisiche; io desidero lasciarmi abbracciare da Gesù e da quel Padre di cui Egli è icona.

«Annunciatelo dai tetti!» è un comando di Gesù e sgorga dal suo desiderio di diffondere nel mondo la «Sua esperienza del vero Dio, che è Padre misericordioso»: in queste parole dell’introduzione della lettera trovo tutta la passione per proclamare «all’uomo indifferente oppure travolto dal caos della vita» il Dio di Gesù che cammina con noi.

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