Negli ultimi due secoli gli uomini hanno sognato e lottato per giungere alla piena occupazione, perché nel lavoro, remunerato in modo equo, hanno visto la meta della loro emancipazione e il raggiungimento della piena dignità.

Dopo la Seconda Guerra mondiale tutti gli Stati si sono posti l’obiettivo della piena occupazione. La Costituzione italiana, nel primo articolo, ha persino affermato che la Repubblica è fondata sul lavoro. E oggi invece alcuni studiosi ci dicono che stiamo costruendo la “società della piena disoccupazione”. Come è possibile? E perché? La colpa è delle macchine?

La risposta alla prima domanda sta negli enormi progressi ottenuti negli ultimi anni dall’automazione e dalla “intelligenza artificiale”. Da qualche tempo gli studiosi ha introdotto l’espressione “Industria 4.0” per indicare il nuovo scenario che si sta delineando con l’avanzare dell’automazione inizialmente soprattutto nel settore industriale, ma poi anche nei servizi e persino in agricoltura. Altri, dopo aver ricordato che stiamo dentro la terza rivoluzione industriale, affermano che già si sta delineando la quarta rivoluzione industriale, quella prodotta appunto dalla “Industria 4.0”, che porterà a profonde trasformazioni tecnologiche nella progettazione, produzione e distribuzione di beni e servizi.

Con la quarta rivoluzione industriale le macchine, un tempo strumenti per incrementare la produttività dei lavoratori, si trasformano esse stesse in lavoratori. Da tempo i robot introdotti nelle fabbriche sostituiscono i lavori manuali ripetitivi. A partire dai prossimi anni, con i progressi dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale, i robot potranno essere utilizzati anche in molti lavori impiegatizi e professionali. Secondo alcuni esperti, nei prossimi venti anni in alcuni settori moltissimi lavori (forse il 30% dei posti di lavoro) potranno essere svolti da robot.

Di fronte a questa realtà, potremo lavorare tutti meno ore e avere il problema di come impiegare il nostro tempo libero? Oppure dovremo affrontare il dramma di una massa di persone senza lavoro? Chi teorizza che le leggi dell’economia sono ferree ha una sola risposta: nei settori in cui l’uomo potrà essere sostituito da una macchina, prima o poi sarà inesorabilmente sostituito. Perciò, se non vorranno subire la concorrenza dei robot, i giovani dovranno puntare su lavori non ripetitivi e ad alta qualificazione. Non c’è altra soluzione?

Deve essere chiaro che è illusorio pensare di arrestare il progresso tecnologico. Nell’Inghilterra della prima Rivoluzione industriale Ned Ludd e altri tessitori distrussero i telai meccanici pensando di salvaguardare il loro lavoro, ma ovviamente non ottennero alcun risultato. La colpa non è mai delle macchine, ma di come le macchine vengono utilizzate. Fermare il progresso tecnologico è velleitario e, se non si vuole restare indietro, occorre investire in nuova tecnologia. In Italia l’intero settore degli elettrodomestici è scomparso per gli scarsi investimenti nelle nuove tecnologie realizzati dagli imprenditori del settore; nelle Marche ne abbiamo avuto di recente una prova lampante a Fabriano con il gruppo Merloni (prima Ariston, poi Indesit).

L’Italia è in ritardo nell’economia digitale e nell’innovazione tecnologica; gli industriali italiani (non solo i Merloni) non hanno investito in innovazione ed è questa una delle cause principali della caduta della produttività del lavoro nel nostro Paese. Nel 2016, finalmente, anche in Italia è stato lanciato un Piano nazionale Industria 4.0; siamo molto in ritardo rispetto ad altri Paesi, in particolare la Germania, ma gli incentivi previsti (dagli iper-ammortamenti ai finanziamenti agevolati) stanno favorendo la diffusione dell’automazione nell’industria manifatturiera, soprattutto nel settore della meccanica. Il problema sta nelle lentezza con cui l’innovazione si diffonde nelle picccole imprese, che, come è noto, sono la stragrande maggioranza delle imprese italiane (e marchigiane). Per questo si sta insistendo sul concetto di “ecosistema”: la diffusione del nuovo paradigma tecnologico incontrerà meno ostacoli e creerà sinergie virtuose se ci si muoverà in una logica di collaborazione fra grandi imprese, piccole e medie imprese, università, centri di ricerca, startup, istituzioni pubbliche, associazioni di categoria e altri soggetti sociali interessati alla diffusione delle innovazioni in un’ottica di sistema.

Quale sarà allora il futuro del lavoro? Occorre evitare visioni catastrofiste: la diffusione dell’innovazione non sarà immediata; eliminerà molti posti di lavoro, ma ne creerà altri per i quali si richiederanno nuove capacità; occorreranno nuove competenze e specializzazioni, ma questo significa che bisognerà formarle. Si toccano così altri aspetti della questione. La rivoluzione tecnologica non può essere fermata; però può essere governata. Governare un processo di così vaste dimensioni significa non solo incentivare l’innovazione tecnologica, ma anche operare in altre direzioni e su altri versanti, perché non si deve fare l’errore di ridurre tutto alla tecnologia.

Innanzitutto non ci si può limitare a guardare al solo mondo produttivo. Bisogna ragionare in termini di “sistema-Paese”. Come sottolinea il sociologo “massmediologo” Derrik De Kerckhove, che dopo aver a lungo insegnato all’università di Toronto oggi vive in Italia e dirige la rivista “Media 2000”, l’Italia ha buone opportunità sul fronte dell’automazione e in generale dell’innovazione tecnologica, ma rischia di restare imbrigliata in un sistema atrofizzato: «La burocrazia, la lentezza della giustizia, l’incertezza del diritto sono problemi veri. Quando li risolverete, avrete un’intelligenza collettiva straordinaria». Ai problemi indicati da De Kerckhove si potrebbero aggiungere lo spreco del denaro pubblico, la corruzione diffusa e la criminalità organizzata, ma un fatto è certo: come tutte le sfide globali, anche la sfida tecnologica può essere vinta soltanto puntando sull’efficienza dell’intero sistema-Paese.

Un altro versante fondamentale è quello formativo. Le società investite dall’innovazione si devono attrezzare pensando a nuove scuole, nuove discipline, nuovi lavori. Serve allora un piano di investimenti pubblici per offrire la nuova formazione tecnica e professionale richiesta dalla quarta rivoluzione industriale. Serve una formazione continua per i lavoratori che hanno bisogno di essere aggiornati, ma soprattutto ci saranno spazi per i giovani formati in scuole specializzate, ma abituati a utilizzare le nuove tecnologie, essendo “nativi digitali”.

Un ulteriore versante fondamentale è quello sociale. Le istituzioni, a partire da quelle educative, e la società civile sono chiamate a comprendere i riflessi dell’innovazione tecnologica nel mondo del lavoro e nelle vite di tutti noi per costruire una cultura capace di elaborare il cambiamento. Questo sforzo va affiancato da un serio impegno di ridefinizione delle tutele sociali, per tutelare chi non riesce ad adattarsi ai nuovi tempi della produzione e tutti gli esclusi dal nuovo sistema produttivo. Infine va colto un ultimo aspetto.

Le opportunità offerte dalle nuove tecnologie andranno a vantaggio solo di alcuni o di tutti? Ancora una volta riemerge il ruolo centrale della politica. La politica deve guidare (cioè indicare la direzione) e governare i processi economici e tecnologici. Come di fronte a tutti i problemi, se si vuole evitare un futuro in cui masse enormi di disoccupati saranno a pronte a scagliarsi contro chi concentra il potere nelle proprie mani, occorre trovare una soluzione socialmente sostenibile. Nei prossimi decenni l’umanità avrà la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita approfittando delle opportunità offerte dal progresso tecnologico.

Serve una classe politica che, controllata e pressata da cittadini attivi e consapevoli, faccia scelte coraggiose: creare una società più giusta e più solidale, nella quale i vantaggi ottenuti dalle nuove macchine siano distribuiti fra tutti. Solo se la politica svolgerà il suo ruolo con l’obiettivo del bene comune sarà possibile utilizzare le nuove macchine per far vivere meglio tutti.

(Marco Moroni è Segretario di Acli Marche con delega al Lavoro e al Centro studi)

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