«Che ci faccio qui?» si chiedeva Bruce Chatwin. Già, cosa ci faccio a Castelfidardo, in una notte di giugno, inebriato dal profumo dei tigli? Dietro il palco campeggia, illuminato a giorno, il monumento al generale Cialdini: una montagna di travertino da cui si distacca un battaglione di soldati forgiati nel bronzo, con le armi in pugno e le bandiere spiegate. Eppure non sembra, il nostro, un tempo di battaglie epiche, di eserciti in lotta tra loro. Piuttosto è il tempo di piccoli fatti di cronaca, episodi minori che attendono una voce narrante per uscire dalla loro apparente insignificanza.

“Concetta, una storia operaia” è il titolo del libro che Gad Lerner è venuto a presentare. Parla di una donna che si è data fuoco negli uffici Inps di Settimo Torinese, per protestare contro un presunto torto che le è costato un notevole ritardo nella percezione di una indennità di disoccupazione.

«La storia – esordisce – potrebbe iniziare così: ci sono una cristiana, un musulmano e un ebreo, ma non si tratta di una barzelletta». La cristiana è Concetta, ex dipendente di una cooperativa di pulizie, a rischio di indigenza, testimone vivente di quel fenomeno che Lerner chiama il “lavoro retrocesso”: chi perde il lavoro ha scarsissime probabilità di trovarne un altro dello stesso livello, e chi lo cerca per la prima volta non si illude di trovare un posto fisso. Il musulmano è Anas Shabi, immigrato marocchino che ha salvato la vita di Concetta, utilizzando un estintore. L’ebreo, naturalmente, è il giornalista che ha ricostruito la vicenda. «Per una volta almeno – sottolinea – questa storia contraddice lo stereotipo del conflitto tra italiani precari e immigrati invasori. Manda in soffitta – finalmente! – il motto rancoroso “Prima gli italiani”. Potrebbe rappresentare il germe di una inedita solidarietà tra poveri: nelle sale d’aspetto dell’Inps si incontra una umanità nuova, ridotta a plebe dalla mancanza di lavoro stabile, sempre più simile alla massa di diseredati che proviene dalla sponda sud del Mediterraneo».

Eccolo, infine, il nodo cruciale da sciogliere: combattere l’idea che l’internazionalismo, un tempo tratto distintivo del movimento operaio, debba restare patrimonio della classe apolide degli investitori. E che i lavoratori poveri di ciascuna nazione, per difendersi dalla manodopera immigrata, debbano rifugiarsi in forme di protezionismo economico. Internazionalismo finanziario dei privilegiati e nazionalismo xenofobo dei pezzenti: è proprio ineluttabile questo esito del crollo del lavoro dipendente?

Gli interrogativi si accavallano. I problemi sono drammaticamente evidenti. Non così le soluzioni. L’unico invito, ripetuto più volte, è proprio quello di diffidare delle soluzioni apparentemente facili, diffuse a colpi di tweet.

Al termine dell’incontro vorrei parlare con Gad Lerner. Raccontargli che anche dalle nostre parti la retrocessione del lavoro ha causato fratture profonde. E come è potuto accadere che la mansuetudine di un tempo sia stata cancellata dal livore. Mi metto in fila, attendo il mio turno. Riprendo in mano il volantino della serata: “Abitiamo il bene comune” è il nome dell’associazione promotrice. Un ottimo auspicio per i giorni a venire.

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