di Federica Ancona*

Al Sinodo, i circoli minori sono finiti e prossimamente rivedremo tutti insieme quello che sarà il documento finale. Ci sono stati tanti interrogativi, molti ascolti profondi; infatti, il Papa ha chiesto espressamente che dopo alcunerelazioni venisse mantenuto il silenzio per almeno tre minuti in sala; il tempo necessario perché ciascuno potesse interiorizzare quel grido da tempo non sentito o non ascoltato.

Dubbi, paure, interrogativi, domande aperte. Tante sono state le sfaccettature dell’ascolto di noi giovani. C’è ancora un grido a me molto caro che mi ha particolarmente colpito: il grido dell’emarginato, del più debole.

Vorrei allora far parlare proprio lui, Claudio, che in Sala Nervi, con la sua storia ha mostrato come la violenza, spesso vestita con l’abito del bravo ragazzo, possa uccidere anche senza armi e portare un ragazzo, anzi numerosi giovani, alla morte del cuore.

Sapete cosa si prova ad essere costretti a tenere la testa dentro al water mentre altri tirano lo sciacquone? Io sì. Alle elementari e alle medie ho subito ripetuti atti di bullismo, con violenze fisiche e psicologiche da parte di compagni coetanei e più grandi. Io ero solo e incapace di difendermi. Dentro di me cresceva anche tanta rabbia, che però non riuscivo a tirare fuori. Volevo chiedere aiuto ma non sapevo come fare. Avevo paura delle conseguenze. Mi sentivo debole. Brutto. Indegno d’amore.

A 18 anni ho cominciato a bere, a drogarmi, a conoscere l’ambiente della trasgressione. Sotto l’effetto dell’alcool o della droga, il bambino ferito dentro di me riusciva a gridare, a dire, anche se in modo distorto, ciò che pensava. In particolare, l’alcool era come un abbraccio, un calore “umano” che mi avvolgeva e scaldava, colmando il bisogno di affetto e tenerezza che sentivo.

Con il passare degli anni, il mio fisico non ha retto a quella vita, mi sono trasformato in una “larva umana”, nell’indifferenza di tutti. Ho fatto molte cose brutte. Sono arrivato a stracciare il mio corpo e la mia anima per ottenere soldi. Era l’Inferno!

Però, proprio quando stavo per morire e perdere la speranza, l’incontro con un sacerdote ha acceso una nuova luce nel mio cuore. Mi sono detto: Claudio, vuoi vivere o morire? Scelsi la vita!! E decisi di entrare in comunità. La prima esperienza appena entrato è stata quella di un abbraccio senza giudizio.

Lì ho trovato una famiglia che non mi ha mai condannato per quello che avevo fatto e che mi è stata accanto nei momenti difficili, sostenuto nel cuore con la preghiera. Il cammino è stato doloroso. C’è stato bisogno di molto impegno e dedizione da parte di chi mi ha seguito. Ma eccomi qui!

Papa Francesco ha ricordato più volte a noi giovani l’importanza dell’accoglienza del più debole, del diverso:

«Ma perché prendersela con i più deboli? Cosa c’è dentro che ci porta a comportarci così? […] Si tratta di un’aggressione che viene da dentro e vorrebbe annientare l’altro perché è debole. […]

Quando noi ci accorgiamo che abbiamo dentro di noi questo desiderio di aggredire quello perché è debole, non dubitiamo: c’è il diavolo, lì.

Perché questa è opera del diavolo, aggredire il debole».

Perché non rivoluzionare il mondo rieducando i ragazzi all’ascolto di se stessi, delle proprie fragilità, della loro parte più debole per evitare di scaraventare la rabbia su coloro che sono deboli, poveri, fragili come loro? Se c’è un’arte per imparare ad amare, dovremmo iniziare ad imparare l’arte di accettarci fragili. La fragilità è quasi sempre l’ora di Dio!

*Rappresentante comunità Nuovi Orizzonti al Sinodo dei giovani

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