di M. Chiara Biagioni

C’è anche l’abuso di coscienza. Meno visibile di quello sessuale. Ma pur sempre abuso, perché ci si approfitta della fiducia dell’altro, s’impongono con autoritarismo indicazioni di vita forzate e a subirne le conseguenze sono soprattutto le persone più fragili e vulnerabili. L’abuso di coscienza viaggia sotterraneo e silenzioso nelle comunità di fede, negli Istituti religiosi, nella pastorale soprattutto giovanile. Ne ha parlato molto Papa Francesco. Con i gesuiti in Irlanda. E nella Lettera al Popolo di Dio diffusa lo scorso agosto. Un nodo che è stato affrontato anche all’assemblea generale della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia (Corref) che si è svolta a Lourdes, dal 10 al 13 novembre, riunendo 450 responsabili di Istituti religiosi e monastici. A condurli nella riflessione è stato il domenicano fr. Adrien Candiard, autore tra l’altro di un libro da poco tradotto anche in italiano “Quando eri sotto il fico” (Queriniana), in cui si legge: “La nostra vita sociale, intellettuale, amorosa, è sempre e soltanto la ricerca e il perseguimento della vita vera. Fino alla luminosa evidenza che la vita che desideriamo e la vita che Dio vuole per noi, sono una cosa sola”. Lo abbiamo intervistato.

Cosa è un abuso di coscienza?
Nella teologia cattolica, quella più classica, la parte più sacra dell’uomo è la coscienza individuale. Una coscienza che ci permette di distinguere tra bene e male. Può sbagliare ma la dobbiamo sempre seguire, anche se ciò implica lo sbaglio. Il ruolo di colui che accompagna le persone, non è mai di dire alla persona ciò che deve fare, ma aiutarla a fare luce su ciò che quella persona stessa ritiene meglio per sé.

Prendere il posto della coscienza altrui è, appunto, un abuso della coscienza.

Come avviene?
Una persona si apre a me, nella confessione, in un rapporto di amicizia, di accompagnamento spirituale. Si apre perché si fida di me. Questo rapporto diventa abuso quando io uso questa apertura e questa fiducia per mettermi al posto della coscienza dell’altro, per imporre una mia indicazione. Uso, cioè, la fiducia che le persone depongono in me per orientarle verso una mia soluzione: “Devi fare questo”. Lo faccio perché ho paura di non essere all’altezza. Perché mi sono imposto di essere efficace. Perché non ho la pazienza di rispettare i tempi, anche lunghi, dell’altro. Perché credo che se prendo io in mano la situazione, il problema può essere risolto in maniera più veloce. È una tentazione molto forte. Ma che diritto ho io di farlo? Che cosa so veramente di quella persona?

Come accorgersi di essere vittime di questo tipo di abuso?
È innanzitutto un abuso vero e proprio. Ma è anche un abuso che non si vede in maniera evidente come può vedersi un abuso sessuale, ovviamente. E non si va in Questura per denunciare qualcuno di abuso di coscienza. La cosa poi più difficile è che la gente, spessissimo, in particolare le persone in situazioni di vulnerabilità, lo chiede. Viene con problemi molto seri e difficili e piuttosto che fare un lungo lavoro di analisi e chiarimento, ha voglia di trovare un “guru” e di sentirsi dire: “La Parola di Dio ti dice di fare questo”. Ci può essere una correlazione tra l’abusato e l’abusatore, tra chi ha voglia di dire all’altro come vivere e chi ha voglia di sentirsi dire come vivere. L’abuso di coscienza, inoltre, non è compiuto da mostri ma da persone che agiscono a volte in buona fede.

Quando, invece, un accompagnamento spirituale è positivo?
La via cristiana e spirituale è un cammino di libertà. Nella vita dello Spirito uno diventa sempre più libero davanti a tutte le schiavitù che sono materiali ma anche spirituali. E tra le schiavitù ci sono anche il senso della colpa, l’aspirazione ad essere perfetti, la non accettazione dei propri limiti, ecc. Il ruolo della Chiesa è quello di accompagnare le persone a liberarsi da queste schiavitù. Crescere nella vita cristiana significa essere sempre più liberi. Se invece ho sempre bisogno di qualcuno che mi dica cosa fare, significa che qualcosa non sta funzionando. Il problema di fondo è quando si confondono gli obiettivi: il mio obiettivo è che tu faccia il bene o che tu ami il bene?

Ti posso convincere a fare qualcosa, ma se non lo fai liberamente o lo fai per farmi un piacere, o perché “Dio lo vuole”, non vale niente, non ti aiuta.

Ci può fare qualche esempio?
Si vede, in particolare, con i giovani che chiedono consigli per la vita affettiva e sessuale. E spesso – da quello che vedo io, per la mia esperienza che come tale ovviamente è limitata – il primo intento è quello di frenare, spegnere le aspettative e abbassare le aspirazioni. E per ottenere questo risultato si usa spesso una pastorale di paura. Quello che voglio dire è che non abbiamo bisogno di far paura alla gente sul peccato. Il vero intento cristiano è invece quello di far amare il bene e far capire che le mie aspirazioni più vere e profonde corrispondono al progetto che Dio ha da sempre pensato per me.

Che tipo di comunità ci vogliono per fare percorsi di liberazione così?
Non è facile, il che non significa che dobbiamo lasciar perdere. La cosa più importante è sapere che io non sono il salvatore del mondo. Non posso salvare le persone perché le persone sono già salvate. Il posto del Salvatore è già stato preso. Questa voglia di salvare le persone – che può essere anche segno di generosità – va abbandonata subito, perché non aiuta. E ciò significa non avere obiettivi da raggiungere a tutti i costi. Significa aiutare ma mai decidere al posto dell’altro. Mai. Questa è la condizione più importante.

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