Novembre è il mese dedicato al ricordo dei defunti. In epoche ormai lontane veniva interamente vissuto come il tempo della commemorazione dei morti. In seguito, invece, la ricorrenza si è sempre più ridotta fino a limitarsi alla sola giornata del 2 novembre. I frenetici stili di vita hanno portato a restringere ogni cosa all’essenziale, anche la morte, come a negare che c’è un tempo molto più lungo della nostra vita terrena.

I social network ci fanno avere migliaia di amici senza, però, parlare mai con nessuno di loro. Tutto al più si scrivono messaggi con al massimo i 140 caratteri consentiti da Twitter”.
Anche la visita al cimitero è diventata spesso una sorta di “tweet”. Si dedica appena qualche minuto al raccoglimento davanti alla tomba di un proprio caro, il tempo di lasciare un fiore o accendere un lumino e poi via, di nuovo per la propria vita.

Eppure il cimitero è un luogo che merita di essere vissuto. Camminare senza fretta tra le tombe è come fare un viaggio a ritroso nel tempo. Soffermarsi a leggere alcune lapidi è come sfogliare pagine di un libro di storia. È stato scritto che «i camposanti sono la cartina di tornasole delle memorie antiche» e alcuni anni fa la marchigiana Valeria Paniccia nel libro dedicato ai “prati dell’eternità” ha scritto che «perdersi nei cimiteri aiuta a rievocare un’epoca, cogliere l’anima di un popolo, portare alla luce vite celebri e non, scoprire la bellezza artistica di sculture poco conosciute».

Come darle torto. Per rendersene conto basta aggirarsi nei tre chiostri della parte più antica del cimitero di Macerata. Si può così ripercorrere idealmente secoli di vita cittadina e dare una identità concreta a quei nomi che con eccessiva disinvoltura siamo abituati ad identificare solo con altrettante vie, piazze o palazzi della città.

All’ingresso del primo chiostro, ad esempio, si nota l’austera e maestosa, per quanto spoglia e dimenticata, tomba del musicista Lauro Rossi con il sarcofago posto sopra la lapide. Accanto, sulla parete di lato, c’è la tomba dove riposano i canonici della Chiesa maceratese: una trentina di sacerdoti elencati in ordine di tumulazione: da don Igino Cappelloni, deceduto nel 1917 a monsignor Egidio Pietrella, scomparso l’anno scorso.

Nell’angolo sono appoggiate a terra piccole lapidi che indicano il punto dove sono sepolti i resti di due dei maggiori artisti del Novecento, Ivo Pannaggi e Umberto Peschi. Poco più in là, a pochi metri dalla grande lapide con i ritratti in bassorilievo dei familiari del conte Tommaso Lauri, un medaglione in bronzo raffigurante una lira indica la tomba del musicista Lino Liviabella, compositore e pianista scomparso nel 1964 e di altri suoi familiari, tra i quali il padre Oreste che fu organista e direttore della Cappella Musicale del Duomo di Macerata.

A queste lapidi monumentali se ne affiancano altre con incisi testi brevi e incredibilmente profondi, che trasmettono il dolore di una famiglia. Quasi sempre quello di un padre e di una madre costretti a seppellire un figlio o una figlia perduto in tenerissima età.

Molte sono le lapidi scritte in latino e quelle composte in un italiano aulico, secondo formule tipiche di una epigrafia di origine antica. Tra queste spiccano le tredici lapidi della tomba della famiglia Pantaleoni. Oltre al capostipite, Pantaleone, giurista, avvocato in Rota della Curia maceratese e maggiore finanziatore per la costruzione dello Sferisterio, vi sono sepolti alcuni dei suoi otto figli. Due di queste lapidi, poste dal più giovane dei figli maschi, Diomede, ricordano i suoi fratelli maggiori: Disma, canonico che visse «conforme al vangelo» e Nazario, «sindaco della natia Macerata in tempi difficili». Una lapide è dedicata – «perché la sua terra natia rammenti» – a Domenico Pantaleoni, «giureconsulto egregio e magistrato integerrimo», morto a Palermo.

In qualche caso l’italiano erudito delle lapidi lascia spazio al vernacolo maceratese. Una lunga stele senza date ricorda che «Ecco stà le ossa de Mancioli Isè e forsce forsce l’anema ancò sta penenne, Dio non voglia…» e, più avanti, un epitaffio in dialetto, scolpito sul marmo, sovrasta la tomba di Giovanni Ginobili, poeta vernacolare, folklorista e padre nobile dell’etnomusicologia marchigiana.

Le tombe raccontano anche i cambiamenti sociali, specie quando sono “personalizzate” in ragione dell’attività svolta in vita dal defunto. È il caso ad esempio del monumento funebre, che simboleggia un motodromo, eretto per ricordare Primo e Giovanni Moretti, padre e figlio, entrambi piloti di moto dalle pluripremiate carriere agonistiche. Un libro marmoreo sovrasta la tomba del poeta Remo Pagnanelli ed a forma di libro aperto è anche la piccola lapide dedicata allo storiografo Raffaele Foglietti.

In mezzo al chiostro svetta la statua bronzea di Eugenio Niccolai, medaglia d’oro al valor militare, caduto in combattimento durante la prima guerra mondiale. La lapide ricorda che Niccolai – giovane giornalista de Il Resto del Carlino, definito in un recente libro sui caduti nella Grande Guerra “l’eroe cattolico” – partì per il fronte quando era ancora studente in giurisprudenza e che l’università di Macerata nel 1924 gli conferì la laurea ad honorem post mortem.

I cimiteri assomigliano alle città. Anch’essi hanno il loro “centro storico”, dove ogni angolo esprime una propria identità e i nuovi quartieri, quasi tutti uguali, dove è più facile perdersi. Anche nelle “periferie” del cimitero, però, tra quelle costruzioni di loculi perfettamente allineati, senza “parole abbandonate alla pietra”, ci sono storie ugualmente importanti che non vanno dimenticate. Il cimitero è un libro di storia cittadina che non si riuscirà mai a leggere fino all’ultima pagina.

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