di Agostino Giovagnoli (*)

Dopo quasi settant’anni di incomprensioni e conflitti, i rapporti tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese hanno avuto una svolta profonda. La firma di un Accordo Provvisorio tra le due parti – sottoscritto da monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e da Wang Chao, viceministro degli Affari esteri della Repubblica popolare cinese – è stata annunciata contemporaneamente il 22 settembre 2018 dalla sala stampa vaticana e dal ministero degli Esteri di Pechino. Il suo contenuto è rimasto riservato ma, come ha spiegato la Santa Sede – confermata da fonti cinesi – si tratta di un «accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi [che] prevede valutazioni periodiche circa la sua attuazione». Lo stesso giorno è stata annunciata ufficialmente anche la riammissione nella piena comunione ecclesiale di otto vescovi ordinati senza mandato pontificio e cioè “illegittimi”, al fine di «sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina» e nella speranza di «superare le ferite del passato realizzando la piena comunione di tutti i cattolici cinesi». «Per la prima volta dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma», ha commentato il cardinale Parolin, evidenziando che l’obiettivo dell’accordo non è politico ma pastorale: aiutare le Chiese locali perché «possano dedicarsi alla missione di annunciare il Vangelo e di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società».

Qualche giorno dopo, tornando dall’Estonia, papa Francesco si è assunto la piena responsabilità dell’Accordo, sottolineando la totale sintonia con l’azione dei suoi collaboratori ed elogiando pubblicamente i membri della Segreteria di Stato da anni impegnati su questo dossier. Nel Messaggio ai cattolici cinesi e alla Chiesa universale, inviato il 26 settembre 2018, il Papa ne ha riassunto lo scopo con parole in piena sintonia con quelle del cardinale Parolin: «Realizzare le finalità spirituali e pastorali proprie della Chiesa, e cioè sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo, e raggiungere e conservare la piena e visibile unità della comunità cattolica in Cina». A tal fine, ha ritenuto «fondamentale affrontare, in primo luogo, la questione delle nomine episcopali», indicando in tale scopo la finalità principale dell’Accordo. Il Messaggio prende anche implicitamente posizione sulla questione della libertà religiosa, riconoscendo che in Cina – come avviene, del resto, anche in altre parti del mondo – non ci sono le «condizioni, sociali e politiche, ideali» perché la Chiesa possa svolgere la sua opera in modo ottimale. Tale constatazione fa apparire l’Accordo come un necessario primo passo nella speranza di sviluppi futuri. Pochi giorni dopo, all’apertura del Sinodo sui giovani, Francesco ha infine salutato calorosamente due vescovi provenienti dalla Cina – un evento inedito e sorprendente – e molti hanno notato la sua emozione e la sua commozione, rivelatrici del suo intenso coinvolgimento nel percorso che ha portato all’Accordo e nelle speranze per il futuro della Chiesa in questo grande Paese.

Intorno a questo Accordo, insomma, c’è stata una grande chiarezza, che ha lasciato poco spazio a ipotesi di oscuri compromessi, svendite vergognose o ambizioni mondane. Si tratta di uno dei rari casi in cui le motivazioni ufficiali di un atto diplomatico appaiono coincidere pienamente con le ragioni vere di tale accordo. Sono motivazioni che hanno ispirato anche i predecessori di Francesco.

Benché per molti versi sorprendente, infatti, questo Accordo non è stato un fulmine a ciel sereno. Un’intesa con la Cina è stata auspicata già da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Da cinquant’anni, cioè, nessun Papa ha escluso a priori un accordo con la Repubblica popolare cinese perché questo Stato segue un’ideologia atea, non pratica la libertà religiosa, controlla la Chiesa cattolica, sottopone a limitazioni della libertà membri di questa o per altri motivi. Al contrario: tutti hanno sperato e cercato di riprendere rapporti la cui interruzione, ai tempi di Pio XII, non era stata voluta ma subita dalla Santa Sede.

Sono noti molti tentativi importanti per realizzarne la ripresa, come quelli del 1981, del 1983, del 1999, del 2009 ed è probabile che ce ne siano stati anche altri che non conosciamo. Sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI, inoltre, non hanno mai condannato i cattolici cinesi che aderivano all’Associazione patriottica e hanno riammesso alla comunione cattolica numerosi vescovi illegittimi che chiedevano il perdono del Papa e la riconciliazione con la Chiesa. Insomma, sulla questione cinese, c’è una profonda continuità tra i suoi predecessori e papa Francesco. In particolare, con questo Accordo la Santa Sede ha tenuto fermi i principi dottrinali sintetizzati, nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007, da Benedetto XVI.

Francesco, in altre parole, ha fatto più o meno quello che avrebbero voluto fare i suoi predecessori.

Perché allora gli è riuscito ciò che a loro non è stato possibile?

La risposta è soprattutto in due motivi di carattere generale. In primo luogo, perché è profondamente cambiato il contesto storico e in particolare perché la Guerra Fredda è finita e la sua eredità si è dissolta. In secondo luogo, perché proprio i tentativi di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno contribuito a creare un terreno favorevole. A queste due spiegazioni fondamentali, però, va aggiunto che Francesco ha introdotto un elemento originale, che riguarda soprattutto le modalità con cui è stato raggiunto l’Accordo, più che il suo contenuto: ha affrontato anche il rapporto con la Cina alla luce della “cultura dell’incontro” che ispira tutto il suo pontificato.

L’Accordo del 22 settembre 2018 è diverso da quelli precedentemente tentati anzitutto perché non c’è stato nessun vero scambio tra le due parti. L’elemento più rilevante sotto il profilo politico-diplomatico – i rapporti diplomatici tra la Santa Sede e Taiwan – è rimasto fuori dalle trattative e le relazioni diplomatiche con Pechino sono state rinviate in là nel tempo. Appare poco convincente anche l’interpretazione dell’Accordo, sostenuta da gran parte della stampa internazionale, quale “scambio” tra il riconoscimento, da parte del governo di Pechino, dell’autorità del Papa sui cattolici cinesi e la sostanziale cessione, da parte della Santa Sede, della scelta dei vescovi a tale governo. Non c’è stato infatti un riconoscimento reciproco di “sovranità”; ci sono stati invece l’accettazione del ruolo dell’altra parte e un impegno a collaborare insieme. C’è stata, in altre parole, un’apertura reciproca delle due parti. Ed è proprio questo l’aspetto più sorprendente.

Lo conferma indirettamente la natura di questo atto, che – come ha sottolineato monsignor Bruno Pighin – non si configura come un’intesa, nel senso giuridico del termine, tra Stato cinese e Chiesa cattolica riguardo all’attività di quest’ultima nel territorio della Repubblica popolare, come quelle stabilite dallo Stato italiano con la Chiesa valdese o altre confessioni religiose. Si tratta invece di un patto internazionale con cui due soggetti si sono riconosciuti reciprocamente e hanno deciso di collaborare. La convergenza è inoltre messa in luce dalla sostanza stessa dell’Accordo. I suoi contenuti sono rimasti riservati, ma sappiamo che impegna le due parti a collaborare strettamente su una questione cruciale per entrambe. Il suo carattere provvisorio e la dichiarata apertura a eventuali modifiche evidenziano inoltre il limitato rilievo delle procedure adottate. La sua ratio principale, insomma, non è quella di stabilire vincoli normativi e formali: ciò che conta è che funzioni la collaborazione tra le due parti, le quali si sono tenute il più possibile le mani libere proprio per facilitare tale obiettivo.

In un certo senso, è l’impegno alla collaborazione il contenuto sostanziale dell’Accordo.

Tale impegno significa che entrambe hanno rinunciato a procedere indipendentemente: non hanno delimitato le rispettive “sovranità”, “spirituale” nel caso della Santa Sede e “temporale” nel caso del governo cinese, ma hanno rinunciato a esercitarle disgiuntamente. Ciò che vale per le nomine episcopali, inoltre, non può non riflettersi anche su altre questioni: l’Accordo prefigura in questo senso l’impegno implicito ad affrontarle insieme.

foto SIR/Marco Calvarese

Questo esito riflette il modo in cui Francesco e i suoi collaboratori hanno rielaborato le dolorose esperienze del settantennio precedente e i fallimenti dei tentativi compiuti a partire dagli anni Ottanta. È emersa infatti gradualmente la consapevolezza che l’accordo tra due soggetti storicamente e culturalmente tanto diversi tra loro non poteva essere raggiunto con le abituali ritualità diplomatiche, attraverso trattative esclusivamente politiche e con uno scambio sulla base dei rispettivi interessi. Occorreva che maturasse una più larga e profonda volontà di dialogo e di incontro al di là dell’obbiettivo che si voleva raggiungere. Si è compreso sempre di più che le difficoltà culturali non contavano meno degli ostacoli politici o ecclesiastici. Via via le modalità delle trattative sono apparse importanti quanto i contenuti di un possibile accordo. Si è capito che il dialogo e i suoi risultati, la forma del negoziato e la possibilità di una convergenza erano strettamente collegati. Si è sviluppata la ricerca di contatti più duraturi e profondi, di rapporti più stabili, di una maggiore conoscenza reciproca, di una più robusta fiducia verso l’interlocutore. E così via. Tutto ciò non ha costituito solo un preliminare dell’accordo, ma in qualche modo si è anche riversato in esso.

L’atteggiamento della Santa Sede ha influenzato anche quello cinese.

Nel corso di un dialogo sempre più intenso, le due parti hanno gradualmente modificato le proprie posizioni per incontrare un interlocutore proveniente da molto lontano. Si è rinunciato alla logica dello scontro tra principi dichiarati “non negoziabili” e al “braccio di ferro” per difendere posizioni di forza acquisite precedentemente. Sono stati invece cercati i modi concreti con cui l’esercizio dell’autorità religiosa e di quella politica possa effettuarsi congiuntamente all’interno di uno spazio umano e sociale impossibile da dividere in campi radicalmente separati. Da parte cattolica, è stato abbandonato ogni residuo legame con il colonialismo europeo e con l’eredità della Guerra Fredda. Anche l’Ostpolitik elaborata da Casaroli in tempi di contrapposizione ideologica è stata accantonata. Si è rinunciato infine a un’impostazione imperniata sulla separazione tra Chiesa e Stato e sul principio di laicità, cari alla modernità occidentale. Tutto ciò, ovviamente, non ha significato né cancellare né attenuare una distinzione profonda tra religione e politica e non ha richiesto alla Chiesa cattolica di rinunciare a ciò che per essa è veramente essenziale.

Diversi – ma per certi versi analoghi – sono stati i cambiamenti della parte cinese, che ha dimesso un atteggiamento pregiudizialmente ostile verso il cattolicesimo mondiale, adottato una fiducia in precedenza sconosciuta e soprattutto accettato di riconoscere un soggetto internazionale che rappresenta direttamente la Chiesa cattolica.

È sorprendente che, con l’Accordo, da parte cinese si sia accettata l’universalità del cattolicesimo a lungo respinta in nome della propria sovranità.

Non a caso, i vescovi cinesi venuti in Italia dopo la firma hanno potuto sottolineare pubblicamente la positività della piena “interazione” della Chiesa in Cina all’interno della Chiesa universale. Ciò che a lungo è stato respinto come una grave minaccia è stato percepito come una risorsa. Oggi le autorità di Pechino guardano al Papa e alla Santa Sede come a un interlocutore importante per la pace e la cooperazione internazionale. Dove c’era un muro impenetrabile, si è aperta oggi una breccia che può allargarsi in molte direzioni.

(*) Agostino Giovagnoli insegna Storia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fra i suoi libri, editi da Laterza: “La cultura democristiana” (1991), “Il partito italiano” (1996), “Storia e globalizzazione” (2003) e “La Repubblica degli italiani. 1946-2016” (2016); con il Mulino ha pubblicato “Il caso Moro” (2009) e “Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola” (2011). Il suo libro più recente è “Sessantotto. La festa della contestazione” (edizioni San Paolo, 2018).

(*) (*) Questo articolo è pubblicato sul numero 6/2018 di “Vita e Pensiero”, il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in uscita oggi (14 gennaio). Il Sir lo rilancia integralmente per gentile concessione della rivista.

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