11428473_10206470962481699_8427630921605847079_nPaolo Nanni

A volte scherzando, a volte no, siamo in tanti ad ammettere di avere una dipendenza. Il caffè, il telefonino, il calcio, lo shopping, le sigarette. In effetti, viviamo in una società in cui le dipendenze non solo sono previste, ma anche promosse, con una certa insistenza, collegando i prodotti alle possibilità. Di fare, e fino a qui nulla di male, ma anche di essere e apparire, e qui iniziano i problemi. Lo slancio verso gli oggetti e il loro accumulo non è mai mancato nella storia umana, ma i nostri tempi sono gli unici in cui l’oggetto è giunto a erodere il soggetto su scale di massa; perfino a creare illusioni di libertà apparenti che prevalgono su quelle reali. Lo stile di consumo detta lo stile di vita, impone modelli che, siano essi convenzionali o apparentemente anticonvezionali, rispondono a un unico sistema, assolutistico e omologatore: la civiltà dei consumi.

Il 2 novembre del 1975 moriva Pier Paolo Pasolini e, a quarant’anni di distanza, è tristemente necessario dargli ragione, su tutto, o quasi tutto. A partire dalla considerazione che il poeta fece in un raro documento televisivo: in quel che non è riuscito il Fascismo, cioè cambiare nel profondo ciò che siamo, riesce invece la civiltà dei consumi. Secondo Pasolini,

abbiamo vissuto una mutazione antropologica, determinata dalla rincorsa al consumo

che ci ha reso tutti, chi più chi meno, accecati da ossessioni effimere di avere e ostentare. E ci ha anche condannato a un destino beffardo: accumulare in questa rincorsa più frustrazioni che felicità. Perché anche il piacere, se non trova fondamenta in solide relazioni, è superficiale e dura poco. L’evocazione delle droghe risulta automatica e si comprende come mai sostanze e dipendenze si trovino in modo così considerevole nella nostra società, tanto da aumentare in varietà e diffusione quasi in modo costante. Non basta, dunque – lo si è capito -, contrastare le droghe illegali con le azioni di polizia o disincentivare quelle legali con azioni di informazione e sensibilizzazione. Bisogna arrivare a un livello più profondo, laddove si trovano le nostre fragilità e si costruiscono desideri e proiezioni.

È necessario che tutta la comunità, ognuno col suo pezzetto di responsabilità nel costruire un ambiente in cui un giovane possa veder premiati i percorsi di impegno, sacrificio e etica, stigmatizzi le scorciatoie. Ci possiamo far assalire dallo sconforto, pensando a come certi programmi televisivi promettono il successo alle nuove generazioni. Ma io non credo, a differenza di Pasolini, che il processo si sia compiuto: al contrario, la nostra resistenza avviene ogni giorno. Ogniqualvolta facciamo prevalere la relazione, la solidarietà, il consumo moderato e critico. Certo, dovremmo ricordarci di fare sistema. Il fenomeno delle dipendenze non è un problema dei giovani: essi, semplicemente, ci inciamperanno fino a quando gli adulti non lo avranno affrontato insieme.

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