Ppermettete che, pur in una celebrazione comunitaria, mi indirizzi prima di tutto ai miei preti. Parto da una notazione del Vangelo, Gesù invia ad annunciare, a convertire, a salvare il mondo, attraverso il ministero gli 11 apostoli. È un numero imperfetto, Giuda non è stato ancora sostituito. Questo elemento è significativo per indicare che il ministero sarà sempre consegnato a una realtà imperfetta, nessun presbiterio è perfetto, il presbiterio perfetto non esiste. Il presbiterio perfetto con tutti i numeri, con tutta l’armonia, con tutte le caratteristiche ideali, non c’è, non esiste. Gesù lo sa e consegna la missione agli 11. Quindi non piangiamoci addosso dei nostri difetti e dei nostri limiti; Gesù lo sa: siamo un presbiterio imperfetto, come il primo. Ma questo presbiterio imperfetto, verso il quale camminate con l’Ammissione, riceve da Dio la missione di annunciare e di salvare. Gesù ci consegna la missione nonostante i nostri difetti e i nostri limiti che Lui ben conosce.

Un secondo tema di riflessione che prendo dalla festa liturgica di oggi definisce meglio il ministero presbiterale nella sua essenza. Oggi è la festa della conversione di San Paolo. Hans Urs von Balthasar per descrivere la doppia caratterizzazione della Chiesa: carisma ed istituzione per alcuni, ma in maniera per me più corretta la collaborazione nella distinzione tra il ministero nella Chiesa e la missione delle famiglie, ha parlato di principio petrino e di principio mariano. Chi costruisce la famiglia e chi costruisce la comunità ecclesiale. In maniera simile io oggi vorrei dire che nel presbiterio c’è un doppio principio: c’è il principio Petrino e c’è il principio Paolino, cioè c’è la sottolineatura forte dell’andare, dell’annunciare, della missionarietà da una parte.

Guardate San Paolo, se prendete una cartina del mondo antico e tracciate tutte le rotte del suo camminare, vedrete che è una ragnatela, San Paolo non si è fermato mai. E a chi gli chiedeva di fermarsi per battezzare, rispondeva che lui era stato mandato per annunciare. Questo è Paolo. Ma nella Chiesa c’è anche Pietro. Pietro è la presenza solida e sicura, Pietro è il fondamento e la stabilità, Pietro è il ministero che è vissuto in una stabilità che dà sicurezza.

Però come dice von Balthasar la Chiesa non c’è se c’è solo il principio petrino o solo quello mariano, i due devono stare assieme e collaborare, perché un ministro che non si sente anche chiamato a costruire come una famiglia la Chiesa non svolge il suo compito. Cioè uno che incarna Pietro deve anche incarnare Maria. Così una famiglia deve essere aperta e collaborare alla costruzione di tutta la comunità ecclesiale. Chi incarna Maria deve anche incarnare Pietro.

Allo stesso modo non c’è una figura di prete che è solo missionario, che è solo Paolo; così come non deve esserci una figura di prete che è solo Pietro. Pietro e Paolo sono i due apostoli, non dividete gli apostoli come immagine del vostro essere preti. Anche se uno di voi, nella sua vita, per la gran parte sarà in giro per il mondo, non deve mai dimenticare che non è un uomo senza casa e senza patria. Perché ci si radica in una terra ed in una comunità diocesana e si è pietra, si è fondamento solido. L’ideale non è gironzolare. San Benedetto condannava i monaci che non avevano un ubi consistam, un fondamento e un’appartenenza comunitaria, quelli perennemente girovaghi. Per questo un monaco benedettino fa il voto di stabilità, il voto di stare in un monastero. Noi non abbiamo fatto questo voto, però dobbiamo essere sia Pietro che Paolo. La stabilità per dare sicurezza al nostro popolo e per annunciare il Vangelo con una concretezza legata a questa terra, a un sentirsi a casa. E una costante attitudine ad andare, in una chiesa in uscita che vive la missione. Sia Pietro che Paolo.

Mi ero poi preparato delle cose da dirvi e che ho già reso note con la lettera che ho distribuito o con ciò che stamattina ho detto durante il consiglio presbiterale. Però alle 14 ho aperto il sito del Vaticano, perché sapevo che questa mattina il Papa parlava ai preti del Seminario Lombardo per i cinquant’anni di questo seminario ed ho avuto il desiderio di sapere cosa avesse detto loro. Appena ho finito di leggere ho commentato, con poca modestia, che il Papa mi aveva copiato. Poi ho ammesso che non era il Papa che aveva copiato me, ma che ringraziando Dio, mi sento tanto in sintonia con il Papa. Le cose che lui ha detto mi hanno colpito e le dico a voi, perché se questa predica il Papa la faceva a noi stasera, sarebbe andata benissimo.

Prima cosa: «L’evangelizzazione, oggi, sembra chiamata a dover nuovamente percorrere proprio la via della semplicità. Semplicità di vita, che eviti ogni forma di doppiezza e mondanità». Una vita unificata: Pietro e Paolo, «a cui basti la comunione genuina con il Signore e con i fratelli». Dobbiamo tornare al fondamento, all’unione con Dio ed all’unione con i fratelli, in una unità di vita che ha in Pietro e in Paolo due modelli ambedue da tenere presenti. «Semplicità di linguaggio: non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi».  Tornare alla chiarezza forza e semplicità dell’annuncio.
Un altro aspetto “essenziale” sottolineato da Francesco è: «la necessità, per essere un buon sacerdote, del contatto e della vicinanza con il Vescovo». Scusate se questa frase appare interessata, ma lo è fino a un certo punto, perché avere i preti che di continuo fanno riferimento a te è anche un pezzettino di croce per un vescovo. Però sento che è la mia vocazione e per parte mia ci provo. Poi il Papa ha detto una cosa che potrebbe essere una fotografia del nostro presbiterio: «Cari sacerdoti mi rallegro per la dimensione mondiale della vostra comunità: provenite da varie regioni d’Italia, dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia e da altri Paesi europei. Vi auguro di coltivare la bellezza dell’amicizia e l’arte di stabilire relazioni, per creare una fraternità sacerdotale più forte delle diversità particolari».  Che la fraternità ci unisca più delle diversità, che non si devono cancellare e che ci saranno sempre.

Infine il Papa ha concluso ed anche questo mi sento proprio di firmarlo: «spesso appare sul cammino (di un prete) una tentazione da respingere: quella della normalità, di un Pastore a cui basta una vita “normale”. Allora questo sacerdote comincia ad accontentarsi di qualche attenzione da ricevere, giudica il ministero in base ai suoi successi e si adagia nella ricerca di ciò che gli piace, diventando tiepido e senza vero interesse per gli altri. La “normalità” per noi è invece la santità pastorale, il dono della vita». Per un prete cioè dovrebbe essere normale provare a essere santo. Almeno provateci. «Se un sacerdote sceglie di essere solo una persona normale, sarà un sacerdote mediocre, o peggio».

È un invito forte che il Papa ci fa. Che ci propone anche po’ di esame di coscienza e ci invita tutti a conversione. Se ora qualcuno volesse vendicarsi di questa omelia vada a leggersi quello che 4 o 5 giorni fa il Papa ha detto ai vescovi! Ci ha detto: non fate piani pastorali, progetti complicati, preoccupatevi solo di due cose, pregare seriamente e predicare il Vangelo anche a parole. Il che vuol dire, prima di tutto con la vita. Sono perciò conciato peggio di voi, che il Signore ci aiuti tutti!

Ragazzi, benvenuti in questo inizio ufficiale del cammino verso l’ideale del presbiterato!

+ Nazzareno

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