“Il nome della rosa” era la sua croce e delizia. Si incavolava a morte quando lo si ricordava come il suo miglior romanzo. Eppure in quel romanzo c’era tutto Umberto Eco, lo scrittore italiano tra i più conosciuti, e venduti, nel mondo, con il suo gusto per il paradosso, le trappole per il lettore, i segni del linguaggio, la storia medioevale, la religione.

La semiotica, lo studio dei segni, che lui aveva sdoganato assieme ad altri in Italia, il gusto per il medioevo come arcipelago di piccole – ma intriganti ancora oggi – storie, il giallo che diviene metafisica, ne hanno fatto un unicum più volte imitato ma mai raggiunto nella sua semplice complessità. Perché per fare un Nome della rosa “bastava” mettere assieme profonda cultura linguistica, conoscenza storica, riuscire a costruire una serie di avventure vere ma nel contempo attraenti e soprattutto intelligenti, mai scontate. Quando altri cercarono di imitarlo si trovarono di fronte alla mancanza dell’uno o dell’altro di questi elementi.

Eco preferì impegnarsi non nella polemica politica immediata, ma nel costume, in modo da poter parlare anche di grandi sistemi, come quando si trovò a fare i conti con una delle più gravi colpe che secondo lui minacciavano l’essere umano, la stupidità. Ma in molte delle sue opere si sentiva fortemente il grande richiamo della metafisica, della religione intesa come riflessione sul sacro e anche sulle sue derive superstiziose e reazionarie.

I roghi accesi significavano per lui una parte della storia del sacro, che accedeva da porte profonde alla coscienza umana. Attaccava le costrizioni alla fede ma non poteva fare a meno di raccontare l’aspirazione a sapere la verità, a tentare domande sul perché della vita. Lo humour del suo Guglielmo di Baskerville era il suo, era quello di un uomo che cerca oltre le apparenze e che dissacra tutto perché vuole arrivare a credere persuaso, e non costretto, tanto da far gridare ogni tanto degli scandalizzati “maestro!” al suo unico allievo, il giovane Adso.

È stata una ricerca onesta, la sua, e un onesto tentativo di far dimenticare l’unicità di quel suo antico e celeberrimo romanzo che secondo lui rischiava di farlo diventare lo scrittore di un solo libro. E però rimane, anche nelle altre opere, quella lezione di innalzamento della curiosità al rango di ricerca esistenziale, non solo come insinuazione di dubbio, ma come desiderio di capire il senso del mondo. Non escludendo nessuna motivazione. Rimaneva fortissima in lui la lezione di Wittgenstein, la convinzione che noi non avessimo che segni, parole, e che dovessimo partire solo da quelli, senza troppo andar oltre. Ma nello stesso tempo, in quella misteriosa frase posta a conclusione del suo romanzo, “non abbiamo che nudi segni” si nascondeva la tentazione mai sopita ad arrivare alla rosa primigenia, la rosa delle rose, al platonico modello originario cui solo si può tendere, senza mai, su questa terra, afferrarne il profumo abissale.

La ricerca semiotica non gli impedì insomma di lasciare libertà ai suoi lettori, di dire loro: ecco le pedine del gioco, se volete provate a cercare il creatore del gioco. Gli scontri ideologici sulla sostanza di Dio nel medioevo così presenti in alcuni suoi romanzi, le tesi fascinose delle grandi e misteriose sette esoteriche, si pensi a Il Pendolo di Foucault, lo avevano in qualche modo affascinato. Magari lui le avrà prese in giro, ma nel contempo il professor Eco sembra quasi rimpiangere tempi in cui si cercava qualcosa, in confronto a tempi, i suoi, i nostri, in cui le uniche cose ad essere cercate sono gli ultimi modelli di smartphone, sdraiati sul marciapiede dove si passerà la notte in attesa dell’apertura del negozio.

Marco Testi

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