Avvento, tempo dell’attesa. Del tenersi pronti. Attesa di che cosa? Le risposte, nelle diverse culture ed epoche della storia, sono state contraddittorie. Ma una cosa è certa: in ogni tempo e in ogni luogo l’umanità è stata consapevole di dovere attendere qualcosa: di sfuggente, di difficilmente leggibile; che verrà, oppure no. Un attendere nella speranza e, altre volte, nella paura. La storia del pensiero umano ha sempre espresso la certezza che il presente non è definitivo. L’umanità e, in essa, ogni singola persona, qualunque sia la sua situazione esistenziale, ha sempre avuto la consapevolezza che l’oggi non è pienamente soddisfacente, non realizza in pienezza il senso del vivere, per cui si deve aspettare una novità.

Ma questa da dove potrà venire? Anzi: verrà poi davvero questa novità che speriamo e attendiamo? Se lo domandavano già i grandi drammaturgi greci, dando risposte oscillanti tra speranza e paura. A sua volta Virgilio evoca una salvezza che verrà dalla nascita di un bambino: «L’ultima epoca… è giunta; nasce daccapo il grande ordine dei secoli; la vergine ormai torna… una nuova stirpe scende dall’alto dei cieli… finirà il periodo delle guerre e si alzerà l’età dell’oro» (Quarta Bucolica). Più triste il pensiero moderno, con Leopardi che – nel «Sabato del villaggio» – dice di quel grande sperare che poi si rivela solo fallimento: «La tua festa non ti sia grave». Per non parlare di Dino Buzzati che, nel «Deserto dei Tartari» indica la vita come inutile attesa nella speranza di qualcosa che non arriva, né mai arriverà. Il pensiero umano ha assoluto bisogno dell’«oltre», di un dopo che deve venire, che si vorrebbe migliore, che si spera ci ripaghi delle difficoltà e sofferenze di questa vita, ma del quale non si hanno umane sicurezze; come cantava a suo tempo Lorenzo de’ Medici: «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».

Ma cosa attende l’umanità? Ogni uomo ha speranze e desideri diversi: pace, amore, serenità, vita, salute. Ma l’uomo ha soprattutto bisogno di trovare consapevolezza del suo destino, di scoprire il senso del nascere, del vivere e del morire, dello stare insieme… Ma la scienza, la filosofia, la coscienza stessa, lasciate a sé non sanno dare risposte. Ci rendiamo conto che la risposta dobbiamo cercarla altrove, può venire solo dall’alto, da qualcuno – o Qualcuno – che ci dica parole credibili. Occorre salire in alto per trovare una voce che ci doni qualche certezza. «Saliamo al monte del Signore» indica Isaia «perché ci insegni le sue vie…». Ecco allora il senso del tempo sacro dell’Avvento: ci illumina sul nostro futuro che sarà in quel “virgulto” che germoglierà e che, come ci testimoniano i Vangeli e tutta la storia del cristianesimo, è già venuto; da questa certezza nasce l’appello consolatore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio… Egli viene a salvarvi». Quello che la sapienza umana non riesce a scoprire, ci è rivelato fin dai tempi antichi dal profeta.

Da qui l’appello che ci giunge, fatto di speranza che si tramuta in impegno: «Camminiamo nella luce del Signore». E in questo “camminare” sta il senso, il significato della vita umana, che porta in sé la speranza, intesa come certezza. La vita umana cambia “musica”: è cammino, non verso l’ignoto, bensì verso l’incontro con Dio. Secondo le indicazioni di Sant’Agostino: «Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina».

Vincenzo Rini

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