Il terremoto ci ha colto tutti di sorpresa. Non tanto quello di Amatrice del 24 agosto, quanto le due scosse del 26 e del 30 ottobre. Ci sembrava che ormai il mostro (o lo zio Terry, come molti lo chiamano quasi per esorcizzarlo) si era quietato, e invece…

All’improvviso ci siamo trovati smarriti, nudi davanti a noi stessi. La bella partenza che si stava verificando a Tolentino, dove ero stato trasferito in settembre e dove stavo incontrando il gran numero di giovani che settimanalmente venivano accolti in convento per offrire loro un luogo e una strada per diventare grandi, cancellata in pochi secondi. Tutto cancellato in pochi attimi: il convento e la chiesa inagibili e impraticabili, noi costretti ad accamparci alla meglio nei locali risparmiati dal sisma.

Un dramma indicibile se si pensa anche alle continue scosse tuttora persistenti e che stanno uccidendo e spaventando tanti, non solo noi. Mi è stato consigliato, insieme ad altri confratelli della comunità, di lasciare la città per un po’. Ho accettato, ma poi sono voluto tornare per non scappare e per condividere il dramma con gli altri confratelli rimasti, portando, insieme a loro, il conforto ai tanti che continuano a venire per la preghiera, l’Eucarestia e la confessione, sfidando il freddo e i disagi dei ripari di fortuna.

È davvero commovente sedersi per ascoltare le confessioni e vedere questa gente, profondamente scossa e ferita, ma con un cuore semplice e aperto al disegno misterioso di Dio. E allora non puoi far finta di niente. Sei costretto a pensare, a riflettere. Siamo dentro un disastro che ci costringe a valutare, a verificare. Cosa ci chiede? Si può solo immaginare lo stato d’animo con cui affrontiamo queste giornate ma non è questo che conta. Conta la realtà e la realtà è questa nuova e grande sfida che abbiamo davanti e di cui rischiamo di smarrire il senso. Quando ci vengono tolte le cose e le abitudini che avevamo care, quando vediamo venir meno i segni antichi della fede e le sue tradizioni, come il nostro bel santuario di S. Nicola, non si può rimanere indifferenti e ci si domanda che senso ha tutto questo, che cosa Dio ci sta preparando per l’avvenire.

«È davvero commovente sedersi per ascoltare le confessioni e vedere questa gente, profondamente scossa e ferita, ma con un cuore semplice e aperto al disegno misterioso di Dio. E allora non puoi far finta di niente…»

Io posso dire semplicemente che con questo momento così doloroso è come se Cristo mi costringesse a domandarmi dove sta appesa la mia vita: se sulle mie cose o su di Lui. Certo, potrebbe sembrare scontato il fatto che noi siamo poveri e che l’abbiamo scelto liberamente e che il distacco è parte integrante della nostra vocazione di uomini consacrati. Eppure, c’era bisogno di un terremoto per spogliarci di tutto, perfino delle cose più sacre e farci sperimentare davvero il distacco e la libertà da tutti quei legami che alla fine ci facevano schiavi. Tanti, in questo terremoto, hanno davvero perso tutto: casa, lavoro, e tanto altro. Io l’unica cosa che non ho perso è la compagnia di Cristo, ma anche questo non basta se ora non è in grado di farmi affrontare questo immenso dolore.

Quando i segni antichi della fede vengono meno vuol dire che ci viene chiesta una nuova responsabilità: quella di crearne di nuovi. Il poeta Davide Rondoni, sul quotidiano «Avvenire» del 1° novembre scorso sottolineava: «Nessuno è al riparo dal tempo, nessuno e niente è al riparo dalla forza della natura. Leopardi poeta delle terre colpite lo sapeva. E, cristianamente, invitava a diffidare dalle illusioni di chi si ritiene padrone del tempo e della natura. Anche le cose meravigliose sono fragili. Occorre stare in questa umiliazione. Senza deprimersi, ma senza nemmeno appellarsi a banali luoghi comuni per andare avanti come se niente fosse. No, sta succedendo qualcosa che ci umilia e ci chiede molto».

Non si finisce mai di essere sfidati da Cristo ma questa è l’unica e grande risorsa che abbiamo perchè ci consente di non sederci mai, di non sentirci mai degli “arrivati”. Le crepe sui muri mi hanno fatto pensare non alla paura di nuovi crolli ma alle nostre crepe, alle crepe della nostra vita e solo attraverso di esse Cristo può entrare in noi e farci rinascere.

Giuseppe Scalella

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