Questioni di genere nei media vengono sollevate per la prima volta nella quarta Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995, dove venne approvata la Piattaforma dei diritti delle donne nell’ambito della comunicazione e dei media per accrescere la partecipazione delle donne nei processi decisionali della comunicazione, promuovere un’immagine equilibrata e non stereotipata delle donne nei mass media. A quanto pare questi obiettivi sono ancora molto lontani dall’essere realizzati. Una rappresentazione troppo spesso asimmetrica di donne e uomini in tv e nei social media che, essendo costantemente reiterata, concorre a sedimentare direttamente o indirettamente alcuni stereotipi di genere che nella dimensione virtuali si rafforza e circola liberamente senza sosta e critica.

Purtroppo di tutto ciò abbiamo un recente esempio spiacevole, quello della puntata di sabato 18 marzo scorso di “Parliamone… sabato”, andata in onda su Rai 1, contenitore di intrattenimento pomeridiano condotto da Paola Perego, durante il quale si enunciavano le caratteristiche delle donne dell’est considerate “migliori” rispetto alle italiane perché più “servizievoli e pronte a perdonare i tradimenti dei mariti”. Un vero e proprio «micro circo irrispettoso spacciato per salotto garbato e familiare», ha dichiarato Massimiliano Padula, Presidente nazionale Aiart (Associazione cittadini mediali), «continuiamo ad essere delusi da un Servizio pubblico che, invece di puntare su approfondimento serio e contribuire alla crescita culturale dei telespettatori, orienta parte della propria programmazione su temi spazzatura che, come in questo caso, ledono anche la dignità della persona».

Il direttore di Rai 1, Andrea Fabiano, si è poco dopo scusato per quanto accaduto, così come ha fatto la presidente della Rai, Monica Maggioni, annunciando la sospensione del programma. Un teatrino disgustoso che fa sorgere prima di tutto una domanda e cioè come possa accadere che il servizio pubblico mandi in onda senza alcun controllo una tale accozzaglia di sessismo e razzismo. Anche il mondo politico si è scaldato parecchio su questa vicenda, ma prima ancora di imporre e costruire nuovi limiti e norme in termini di comunicazione televisiva, nell’era digitale, il primo investimento da fare riguarda la costruzione di una nuova “cultura mediale e partecipativa”.

Occorre sviluppare competenze, promuovere partecipazione critica, sfruttando l’interattività dei nuovi media, per denunciare anche “dal basso” situazioni di questo tipo, ormai decisamente inaccettabili. Il cittadino, che tra l’altro paga il canone (con prelievo forzoso dalla bolletta enel) e ha il diritto di esigere un servizio pubblico degno di questo nome, ha fortunatamente libero accesso alle piattaforme web e all’informazione, è dunque responsabilità di tutti far sentire la propria voce e non cadere nella cosiddetta spirale del silenzio.

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