«Io vedo il mondo solo secondo me, chissà com’è invece visto da te». Vedere semplicemente il mondo, già sarebbe una bella conquista, vederlo, contemplarlo e scoprirlo senza i filtri oscuranti dei mass media e dei social è una strada maestra. Ma vederlo anche e non solo “secondo me”, certo è espressione di autentica umanità.

Il mondo, l’universo sono infiniti, infinite le prospettive, infinite le possibilità e le lenti con cui guardarlo. Perché allora limitare il nostro sguardo ad un piccolo punto di vista autoreferenziale? Con le parole di questa canzone di Brunori Sas abbiamo introdotto il secondo incontro del Cammino missionario dal tema “Partire è un po’ morire”. La partenza suscita emozioni diverse, paura, trepidazione, curiosità e oscilla in una dinamica di separazione che necessita comunque di un cambiamento di prospettiva. È questo l’obiettivo che l’incontro, svoltosi il 3 febbraio ai Salesiani di Macerata, organizzato in collaborazione dal Sermigo e dal gruppo Eumega, ha cercato di sviluppare attraverso l’ascolto di tre storie diverse, ma tutte segnate dall’esperienza del lasciare la propria terra.

Mary, mamma proveniente dal Kenia, ci ha raccontato in un’atmosfera di forte e profonda emozione la sua scelta di lasciare tutto, la famiglia, il lavoro che le piaceva, gli amici, per seguire il marito colpito da una grave malattia. È partita con un’immensa fiducia nel mondo che l’avrebbe accolta. Non solo perché ad attenderla a Macerata c’erano tanti amici del Sermigo che aveva conosciuto in Africa e che l’hanno subito fatta sentire a casa. Ma anche perché sapeva che in Occidente ci sarebbero stati mezzi efficaci per far fronte alla malattia del marito. È partita con una speranza grande nel cuore che presto si è trasformata in un abbandono. Dopo di lei sono arrivati anche i figli, perché l’aggravarsi della malattia rendeva più difficile la possibilità di un ritorno a casa. Poi l’evento tragico della morte. «Quando è successo mi sono trovata in un buco nero. Non solo non avevo più mio marito, ma neanche il mio migliore amico». Il buio della solitudine e la fatica di sostenere un’altra scelta: restare o tornare in Africa. Una decisione che chiedeva coraggio e un grande desiderio di bene per i figli. Tornare per lei sarebbe stato più facile, avrebbe ripreso la sua vita. Ma i figli? Così ha scelto di restare e ha scelto la vita, quella dei figli a cui continuare a garantire un futuro di studio e di possibilità migliore. «Il Signore ci aprirà un’altra porta. La vita ci insegna che le cose non vanno mai come vogliamo», ha concluso.

Dal Kenia al Gambia attraverso la storia di Musa un giovane delicato, di diciotto anni, dalla voce impacciata, lo sguardo remissivo, arrivato a Macerata dopo uno dei tanti viaggi della morte. È scappato dalla sua casa. Dopo aver perso il padre e subito i maltrattamenti dello zio ha deciso di prendere la via della fuga per cercare una vita dignitosa. È passato attraverso la Mauritania, l’esperienza terribile della prigione in Libia e poi verso l’Italia con il barcone, 120 persone in una barca piccolissima, senza cibo e senza acqua. «Quando sono arrivato avevo paura». Poi grazie alla Caritas e alla loro accoglienza ha trovato un luogo dove ricominciare a vivere. «Sto andando a scuola per diventare un bravo meccanico». Così ha concluso il suo racconto, con una frase semplicissima che sa di sogno, di speranza, d’impegno. Di vita che cerca solo di realizzarsi al meglio.

Una pausa con the nero, chapati africano, marmellata e frittelle della più buona cucina locale, ha interrotto la prima parte dei racconti. Storie che hanno toccato in profondità, storie che con semplicità e autenticità hanno permesso ai 25 giovani presenti di sentire l’umanità che sempre si rivela dietro ogni lasciare. In questo modo, partendo dall’ascolto, si può cominciare a guardare quel mondo straniero che è sotto i nostri occhi ogni giorno, e troppo spesso sotto i riflettori del pregiudizio, con rispetto e con empatia. Quella stessa partecipazione che sgorga spontanea dal cuore quando le parole che ascolti risuonano familiari, proprio come le parole di Eleonora che attraverso il collegamento Skype dall’Australia ci ha raggiunti per farci assaporare un’altra storia di partenza. Eleonora ha lasciato Macerata 4 anni fa perchè ha sentito l’esigenza di cercare un lavoro e un ambiente in cui potesse sentirsi realizzata. «Sono scappata? Forse. Ma sono partita anche perché avevo bisogno di stimoli diversi». Si parte per tanti motivi. Lei ha scelto di farlo con radicalità, per andare a vedere un mondo sconosciuto e lontano dove spendere la propria vita. Anche il suo racconto, a tinte vivaci e battute esilaranti, ha toccato corde significative. Quando si parte si diventa stranieri e spesso da stranieri ci si sente soli e spaesati. Tutto è così diverso e difficile da comprendere. La prima fatica è proprio quella di imparare la lingua. Si è visti con distanza e a volte con compassione proprio perché, ha confessato Eleonora, «sei la poverina che capisce poco o niente». Un rischio, l’incomunicabilità che resta finché non si è disposti a cambiare, pensieri e modi di essere. «Non puoi pretendere di andare in un altro paese e pensare che siano gli altri ad adeguarsi a te». Il suo travolgente racconto si è concluso con un insegnamento che credo possa rappresentare un punto di partenza proprio per il cammino missionario che stiamo percorrendo. «Nelle difficoltà ci vuole pazienza verso se stessi, occorre rallentare il passo e capire, capire e cercare il proprio io».

Partire è un po’ morire è vero, ma è anche e soprattutto vivere, per scoprire che i sogni e i desideri portano lontano, ma l’impegno, l’incontro, il cambiamento di prospettiva, la relazione disponibile e la condivisione, permettono di fare del mondo una casa comune. Di questa casa abbiamo oggi tutti bisogno.

Intanto il cammino continua, domenica 18 febbraio alle ore 9.30 presso la Parrocchia di San Francesco di Macerata, per scoprire «Il senso della missione».

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