In “The Post”, per la prima volta insieme, Maryl Streep e Tom Hanks nell’ultimo film di Steven Spielberg, sono Kathrine Graham e Ben Bradlee, la proprietaria e il direttore del Washington Post alle prese con una decisione che ha cambiato la storia dell’America, la libertà di stampa, il giornalismo investigativo. È il 1971 e un giovane impiegato al pentagono, Daniel Ellsberg, interpretato da Matthew Rhys, consegna al New York Times 7mila pagine di segreti governativi contenenti annotazioni sulla guerra in Vietnam che negli anni sono diventati segreti da nascondere.

Sono i Pentagon Papers, un importante studio sul coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam voluto da McNamara, in quegli anni il Ministro degli Esteri.
Il New York Times ne pubblica una parte fino a quando il Presidente Nixon non chiede un’ingiunzione nei confronti del giornale costretto così a interrompere la pubblicazione di ulteriori documenti riservati. Pochi giorni dopo i documenti arrivano negli uffici del Washington Post che alla fine degli anni ’60 non è altro che un piccolo giornale locale che sta attraversando un periodo di difficoltà, pronto ad essere quotato in borsa.

Alla guida dell’azienda c’è Kathrine Graham «una delle primissime donne a gestire una grande corporation» dice Maryl Streep, «nella maggior parte dei casi, in quegli anni, le donne erano casalinghe e nei giornali c’era posto solo per gli uomini», ma è proprio lei a pronunciare, in una fantastica sequenza al telefono che culmina con un primissimo piano, le parole «okay facciamolo, pubblichiamo». “The Post” potrebbe considerarsi il prequel di “Tutti gli uomini del presidente”, poco tempo dopo nello stesso open space tra il rumore delle macchine da scrivere, Dustin Hoffman e Robert Redford hanno tra le mani lo scandalo Watergate.

«Credo sia il tempo giusto per la nostra storia per ricordare alle persone che tutti possono votare, tutti hanno una voce e tutti dovrebbero usarla». Sono le parole di Spielberg il quale firma una regia classica ma perfetta al tipo di narrazione e alla sceneggiatura firmata da Liz Hannah e Josh Singer di “Il caso Spotlight”. Perfetta la ricostruzione dell’ambiente del giornalismo di quegli anni che oggi ci sembra così lontano, dal correttore di bozze ai i caratteri tipografici.

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