Il fenomeno delle false notizie è vecchio quanto il mondo. Costruite ad arte o frutto di errori, il problema è che non smettono di essere notizie per il fatto di essere false. Già un secolo fa lo storico francese Marc Bloch scrisse un libro sull’argomento, evidenziando come in genere una falsa notizia, quando non appositamente congegnata, possa nascere da un “incidente iniziale che fa scattare il lavoro dell’immaginazione”, mettendo in moto un inarrestabile fenomeno di diffusione. Poi ci sono quelle che, specialmente nei regimi totalitari del Novecento o durante la cosiddetta “guerra fredda”, venivano costruite per “demolire” il nemico. Inoltre sono false notizie anche quella “sussurrate” per screditare il collega o il vicino di casa.

Che si tratti, quindi, di “leggenda metropolitana”, di “disinformazione” o di “maldicenza”, siamo sempre nel campo di quelle che oggi vengono definite “fake news”. Un fenomeno esploso da qualche anno, non tanto perché le false notizie siano aumentate in quantità, ma per il fatto che esse trovano oggi una velocità di diffusione un tempo inimmaginabile. Internet e soprattutto l’uso dei social network hanno rivoluzionato il mondo dell’informazione e la velocità delle notizie. Ad avvantaggiarsene sono anche le “fake news” e spesso è difficile comprendere e saper distinguere immediatamente la notizia vera da quella falsa. Una difficoltà che genera confusione non solo in chi l’informazione la utilizza, ma spesso anche in coloro che dell’informazione sono gli operatori, ovvero i giornalisti.
L’Università di Macerata, per iniziativa della professoressa Lucia D’Ambrosi, ha posto l’argomento al centro di una tavola rotonda che, aperta dal rettore Francesco Adornato, ha visto protagonisti tre giornalisti: Maurizio Blasi (caporedattore della sede Rai per le Marche), Silvia Vaccarezza (Tg2) e Luca Mattiucci (promotore di un nuovo prodotto editoriale, “Il Paese delle Sera”).

Uno dei principali doveri del giornalista è quello di verificare ogni notizia prima di diffonderla. Già prima dell’avvento di internet, però, la frenesia di arrivare prima degli atri, il miraggio del cosiddetto “scoop”, provocava clamorosi “incidenti” professionali. Uno dei casi rimasti più famosi, sia per il nome del personaggio coinvolto, sia perché all’epoca queste cose accadevano molto raramente, fu quello che ebbe per involontario protagonista Mark Twain, il quale leggendo una mattina il giornale “apprese” di essere morto. Quasi un secolo più tardi, nel 1988, a cadere nello stesso genere di gaffe giornalistica fu l’autorevole Le Monde, che annunciò la morte di Monica Vitti. Il giorno dopo il quotidiano parigino pubblicò la smentita con tanto di scuse, esprimendo da un lato il “sollievo” per il fatto che la notizia fosse risultata falsa, ma anche la “vergogna” per averla pubblicata.

A gennaio di due anni fa pure un giornale online maceratese (allora appena nato), è inciampato nella diffusione una “fake news”, dando per avvenuta la morte dell’ex magistrato di Camerino Luigi Tosti, quello diventato famoso come il giudice ‘anticrocifisso’ per essersi rifiutato di celebrare i processi nell’aula del tribunale in presenza del crocifisso appeso alla parete. In verità si trattava solo di un caso di omonimia con un altro magistrato romano deceduto alcuni giorni prima. La falsa notizia, però, ha avuto subito una vasta diffusione a seguito della sua condivisione sui social network.

Anche se quelli citati possono definirsi colpevoli incidenti di percorso, oggi con l’uso sempre più ampio di internet e con la crescente diffusione dei social network è diventato anche difficile distinguere l’errore involontario dalla falsa notizia diffusa intenzionalmente. Si pensi che esiste anche un sito internet, “Fake a wish”, specializzato nella costruzione di false notizie sulle celebrità internazionali. Inoltre, su Facebook tempo fa era stata addirittura aperta una pagina intitolata “Diffondere false notizie sulla morte di personaggi famosi”.
Può sembrare un paradosso, ma in questa era tecnologica, in cui abbiamo tanti nuovi strumenti per comunicare e si moltiplicano continuamente le fonti informative, potersi correttamente informare è diventato assai difficile.

Nonostante lo stato di stagnazione dell’economia, i consumi tecnologici degli italiani negli ultimi anni sono quasi triplicati e più di un italiano su due usa uno smartphone con il quale è costantemente connesso al web. Nello stesso tempo la spesa per l’acquisto di libri è diminuita e le vendite dei giornali quotidiani sono più che dimezzate nell’arco di un decennio. La popolazione italiana connessa ad internet ha raggiunto quote molto alte (tra i giovani la percentuale è arrivata al 95%) e di conseguenza cresce la platea di quanti utilizzano i media in rete (giornali online, web tv, web radio), ma anche di coloro che si informano esclusivamente tramite i social network (Facebook, Twitter, Youtube e simili). Ed è proprio sui social, dove tutti “pubblicano” e tutti “condividono” le informazioni, che si annidano oggi le trappole della “malainformazione”.

Ecco quindi la necessità di saper distinguere tra l’informazione “professionale” e quella prodotta – a volte anche con buoni propositi – in modo approssimativo e soprattutto senza il vincolo delle norme deontologiche che ogni giornalista deve osservare. Va subito detto, però, che anche i giornalisti spesso si “dimenticano” di osservare le regole. Riprendendo i tre esempi che abbiamo citato sopra, nel pubblicare la falsa notizia della morte di Mark Twain, Monica Vitti e Luigi Tosti, i giornalisti hanno “trascurato” di valutare la fonte di quell’informazione e soprattutto di controllarla con i dovuti riscontri. Non lo hanno fatto, probabilmente, per non far circolare la voce e mandare così all’aria il loro “scoop”. Lo scoop, appunto, che un tempo voleva dire essere l’unico giornale a pubblicare un’importante o sensazionale notizia.

Oggi, invece, con l’informazione “in diretta”, si pensa di fare uno scoop pubblicando qualche minuto prima degli altri. Ma la corsa a dare la notizia non lascia quasi mai il tempo per verificarla adeguatamente e, molto spesso, anche l’impreparazione a gestire l’informazione inattesa non consente di valutarla fino in fondo. Spesso – è stato ricordato durante la tavola rotonda moderata da Paola Dezi – sono gli stessi social network o siti internet ad essere presi come fonti di notizie. Sulle colpe del web dietro alle notizie false dei giornali, tre anni fa Luca Sofri ha scritto addirittura un libro, “Notizie che non lo erano” (Rizzoli). Su Wired, Daniele Virgillito ha raccontato di essersi tempo fa divertito a fare un esperimento: inserire nei profili delle persone note presenti su Wikipedia piccoli “frammenti di falsità” ed è capitato che spesso le frasi da lui inventate sono state riprese da autorevoli testate nazionali.

Un tempo, tra la gente, per dare il marchio di attendibilità alle notizie che ci si scambiava per strada, si diceva: “L’ha detto la televisione!” oppure “L’ho letto sul giornale!”. Oggi, purtroppo, questo non lo si può più sempre dire. Imparare a conoscere gli strumenti che utilizziamo per tenerci informati è essenziale e tali conoscenze ci permetteranno anche di saper distinguere ed apprezzare l’informazione di qualità.

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