Da alcuni giorni è cominciata la scuola di teologia, nella diocesi dove mi hanno chiesto d’insegnare la Dottrina Sociale della Chiesa, materia nella quale sono laureata.

Ogni settimana al pomeriggio mi metto in viaggio per raggiungere una località abbastanza lontana dalla mia residenza. La macchina corre veloce sulla strada ben asfaltata. Quanta differenza con le piste di terra della missione! È un piacere guidare. Mi accompagna, in questo tragitto di un’ora, una musica latinoamericana, che mi ricorda i miei lunghi anni trascorsi in quella terra.

Mi aspettano gli “alunni” puntuali e molto interessati all’argomento. Laici che con il tempo hanno capito che le sfide del mondo attuale richiedono preparazione e formazione e che l’ignoranza religiosa è il primo ostacolo per una evangelizzazione. Sono persone di ogni estrazione sociale: insegnanti, dottori, madri di famiglia, operai che mi danno tanto entusiasmo, perché credono che la loro missione di essere sacerdoti, profeti e re niente ha da competere con il clero e con i religiosi.

Essi sono chiamati nel mondo a testimoniare Gesù morto e Risorto. Questa è la molla che li guida a sedersi due volte a settimana sui banchi e a riprendere quaderno e penna per apprendere, approfondire, chiarirsi e chiarire. Già, “chiarire”, anche a me, che dopo una lunga e irripetibile esperienza di missione, sono tornata nella terra in cui sono nata e vissuta, nella Chiesa che mi ha visto fare i primi passi nelle sue aule di catechesi, all’interno dei suoi gruppi giovanili.

Sono questi laici che mi danno il polso della situazione che la Chiesa vive in Italia e in particolare nelle Marche. Sono essi che mi fanno riflettere sui problemi e sugli interrogativi della gente comune, che parla schiettamente e senza mezzi termini. Già dopo alcune lezioni ho rivisto il programma stabilito e ho aggiunto degli approfondimenti, dettati da alcuni interrogativi, semplici ma veri. Non si può insegnare senza tener presenti quei volti che interpellano, domandano e fanno riflettere.

Le due ore passano in fretta e mi accorgo che ognuno vorrebbe chiarire un argomento, dissipare un dubbio o esporre un suo parere. Abituata ad ascoltare piuttosto che a imbottire di nozioni, cerco di raccogliere i disagi, le domande rimaste nel cuore per non rubare il tempo alla lezione, perché abituati a non interrompere e ad ascoltare. Mi diceva una signora alla fine della lezione: «Sa… l’insegnante… non vuole che facciamo domande e non vuole essere interrotto altrimenti si perde il filo e non si termina il programma».

In realtà è verissimo che le domande portano in altri binari e allontano dall’argomento che un professore dovrebbe trattare e magari alla fine vi è il rischio che una persona occupi la platea attirando tutta l’attenzione.

Un rischio che però è bene correre, altrimenti si agisce come se le persone fossero tutte uguali e ci rivolgessimo a un pubblico on line che non vediamo e non conosciamo.
Il pericolo della nostra epoca è la spersonalizzazione e la mancanza di relazione. Ognuno chiuso nel suo mondo: il dottore nelle sue analisi, che non alza lo sguardo sul paziente che ha davanti a sé e continua a lavorare tra il computer e le carte sparse sulla scrivania; l’insegnante che deve per forza arrivare a terminare quello che per lui è importante; e così via fino ad arrivare al padre o madre di famiglia attenti a tutto: vestiti, giocattoli, dolci, piscina, danza, meno che al bambino che, guarda caso, è nel sedile posteriore. Manca l’essenziale: diventare «persona a immagine e somiglianza di Dio che comporta… un esistere in relazione, in rapporto all’altro “io”, perché Dio stesso, uno e trino, è comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Compendio Dottrina Sociale della Chiesa, 37). Sembrerebbe difficile ma non lo è perché, come leggiamo ancora nel Compendio: «Nella comunione d’amore che è Dio, nel quale le tre Persone divine si amano reciprocamente e sono l’Unico Dio, la persona umana è chiamata a scoprire l’origine e la meta della sua esistenza e della storia».

Nell’era digitale, dove ognuno dialoga con il proprio telefono, concepire la Scuola di teologia tutta digitale significa non sfidare il mondo che ci propone l’impersonale e annulla il personale. Lasciare poi da parte quello che nel corso degli anni ci insegna la Dottrina Sociale della Chiesa privando così i laici del pane di cui veramente devono nutrirsi… significa dimenticare che sono essi che devono vivere nel mondo senza essere del mondo ed essere in grado di vedere, giudicare e agire nel sociale.

Come ben ci ricorda un noto esperto di Dottrina Sociale, Stefano Fontana, dobbiamo constatare che c’è un gran bisogno di formazione, anche nella Dottrina sociale della Chiesa. Siamo infatti davanti al pericolo del pastoralismo, che uccide la Dottrina sociale dichiarandola inutile. Il pastoralismo è l’assolutizzazione della pastorale, anche rispetto alla dottrina. Il pastoralismo non solo scavalca la dottrina, puntando direttamente al fare, non solo la rende quindi inutile, ma addirittura la cambia, a partire appunto dalle esigenze pastorali.

È stata questa la motivazione che mi ha mosso a cercare come mendicante nella mia Chiesa di origine una diocesi che offra ai suoi laici una formazione anche nella Dottrina Sociale. E debbo dire che il viaggio settimanale mi ripaga di tante amarezze e di tante delusioni e mi fa credere contro i “profeti di sventura” che, oltre la fragilità della condizione umana, il Signore veglia e conduce la sua Chiesa e ha bisogno oggi più che mai di laici preparati e impegnati in prima fila nel mondo.

M.L.R.

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