Il documento Finale del “Sinodo dei Giovani” apre una ulteriore tappa del cammino sinodale. Mentre introduce l’attesa del documento post-sinodale che attendiamo dal Papa, invita intanto le Chiese locali a una prima riflessione, per accogliere al meglio, nella diversità che le caratterizza – dal livello nazionale a quello diocesano –, i doni del Sinodo.

Dopo una prima, ma attenta lettura, vorrei mettere in luce un primo “dono del Sinodo” che questo documento ci offre.

Fin dalla preparazione remota, l’icona biblica che era stata scelta come guida della contemplazione e della riflessione era stata il racconto evangelico dei discepoli di Emmaus (Lc 24). Una narrazione tanto nota e così spesso usata da apparire inflazionata. Eppure ritengo che il Sinodo ci abbia donato, a partire dal bel testo del Proemio, una sua nuova e preziosa prospettiva di lettura. Perciò non mi è più sembrata eccessiva l’affermazione con cui si apre il n. 4 del nostro Documento: «questa pagina evangelica esprime bene ciò che abbiamo sperimentato al Sinodo e ciò che vorremmo che ogni nostra Chiesa particolare potesse vivere in rapporto ai giovani».

Di fatto, questo Sinodo, più che una riflessione della Chiesa sui giovani di oggi, in maniera simile a quanto aveva fatto il Concilio secondo la famosa frase di S.Paolo VI, ha iniziato a rispondere alla domanda: «Chi sei tu, o Chiesa, e cosa dici di te stessa» in rapporto ai giovani?

Leggere oggi Emmaus, almeno per la nostra Chiesa Italiana, significa perciò autodefinirci sui due versanti entrambi significativi del nostro essere e del nostro relazionarci nei confronti dei giovani.

Da una parte c’è quella Chiesa che è il corpo vivente del Risorto, rappresentata nel racconto dalla figura di Gesù: che è in cammino, che è attenta all’uomo, che è sensibile alle sue fragilità e ai suoi dubbi e vuol di nuovo annunciare il Vangelo della Pasqua in tutta la sua luce, vuol trasmettere la Gioia del Vangelo.

Ma anche i due di Emmaus sono Chiesa: sono la Chiesa affaticata e stanca, eppure ancora in cammino, una Chiesa che ha le parole di salvezza, tanto da far prediche a tutti, ma senza riscaldarsi ne riscaldare i cuori. Infatti il termine che traduciamo con «discutevano tra loro», è omiluv dalla radice originaria dell’italiano “omelia”; perciò con un po’ di fantasia potremmo tradurlo: «si facevano prediche l’un l’altro». I due di Emmaus sono: una Chiesa triste che «fa le prediche» e una Chiesa che «ascolta tristemente le prediche». Una bella immagine, che spiega molto bene perché tanti giovani di oggi siano di fatto così lontani dalla Chiesa.

Il nostro Documento infatti, come eco dell’ascolto di questi due anni, non descrive i giovani come li vorremmo ma come di fatto non esistono, ma finalmente comincia a guardare oggettivamente la realtà e a descrivere la distanza, almeno comunicativa, tra la Chiesa che sa solo far prediche e i giovani che ci ascoltano come chi ascolta le prediche…
Questo circolo vizioso non basta però denunciarlo; bisogna porre dei segni concreti di cambiamento. Ed è qui che l’immagine di Emmaus ci viene in aiuto, perché il Signore Gesù ci presenta uno stile alternativo, un modo diverso di essere Chiesa: una Chiesa viva e risorta che cammina con l’uomo.

Non voglio riscrivere il Documento, né farne una sintesi che fornisca l’alibi per non leggerlo, ma cerco solo di mettere in luce in maniera schematica lo Stile di Gesù: modello della Chiesa che evangelizza i giovani. O meglio che li “rievangelizza”, come notava con la sua solita saggezza il cardinal Martini nel suo celeberrimo “L’Evangelizzatore in san Luca”. In quel libretto, già all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, rileggeva provocatoriamente, tra altri brani evangelici anche questo testo di Lc 24 non come una narrazione di evangelizzazione, ma di rievangelizzazione.

Questi due discepoli non erano infatti dei pagani da evangelizzare, ma, come la gran parte dei nostri giovani, dei battezzati, degli evangelizzati, persone educate come discepoli, conoscitori intellettuali dei grandi fatti del Vangelo e che avevano già più volte incontrato Gesù nella loro vita, però in maniera tutt’altro che intensa e vera. Uno dei problemi basilari del rapporto tra Chiesa e giovani nel nostro Paese, è che il Vangelo, la buona novella, l’abbiamo così a lungo annunciato in maniera stanca, scontata e moralistica, che non risuona più agli orecchi dei giovani né nuova né buona, e per questo è tutt’altro che attraente.

Forse, proprio come i due di Emmaus, i nostri giovani hanno incontrato attraverso il nostro annuncio un Gesù “umano, troppo umano”. Li abbiamo educati a buttare su di Lui uno sguardo così distratto, così incapace di meravigliarsi del mistero, che quando lo incontrano risorto, rilucente interiormente della gloria del Padre, non sono capaci di riconoscerlo.
Vanno perciò rievangelizzati, e Gesù mi sembra ci indichi come fare attraverso sette passi, che caratterizzano il suo stile rievangelizzatore. Di fatto però, e anche nello stesso Documento, resta oggi ancora vivo almeno in alcuni passaggi, il vecchio metodo.

La conversione pastorale della evangelizzazione è ancora da fare! Abbiamo infatti sempre evangelizzato con un metodo tripartito, quel Vedere, Giudicare, Agire certo glorioso, ma che ora è da da correggere. Si leggeva la realtà, ma dando per scontata la condivisione di valori e punti di riferimento comuni, che fondavano una lettura univoca. Sempre sullo stesso sfondo valoriale ed esperienziale tradizionale, che riconosceva le parole del Vangelo come immediatamente comuni e condivise, si operava una valutazione di ciò che è bene e male, positivo e negativo, fonte di progresso e di regresso. Infine si deduceva una prassi operativa, l’Agire. Un metodo che contando su un mondo sostanzialmente stabile e con relazioni semplici e lineari, poteva svilupparsi nella convinzione che la risposta migliore fosse: «si è sempre fatto così».

Il documento sinodale, nel corso del suo sviluppo, smonta queste preocomprensioni rassicuranti, e se forse non dà nuove, solide certezze di metodo, certo offre un punto di partenza interessante.

Nel Proemio, centrandosi sul racconto di Emmaus, enuncia in sintesi 7 passi sulla cui traccia, si può rileggere tutto il Documento, trovando agevolmente punti di stimolo e di contatto.
I 7 verbi che segnano questo stile rievangelizzatore sono i seguenti.

CAMMINARE. Regolando sull’altro direzione e passo, senza giudizio o pregiudizio. Lo stile di Gesù ad Emmaus chiama davvero la Chiesa a uscire, a incontrare i giovani nel loro muoversi e non solo dove momentaneamente si sono fermati un attimo. Si tratta di entrare in una dinamica di movimento, non di identificare nuovi luoghi dove i giovani stanno, per costruirvi nuove strutture da cui subito iniziare a predicare. Sarebbe una volta di più seguire il Gattopardo e non il Vangelo: «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima».

ASCOLTARE. Mettersi in ascolto della visione personale che i giovani hanno del mondo, della fede, di Cristo, del Regno di Dio, della Chiesa. Anche subirne le prediche, “omilun”, pur di entrare in un ascolto empatico, con dei giovani che ai nostri occhi e a volte con verità, possono essere davvero “stolti e tardi di cuore”. È più importante ascoltare uno stolto per comprenderne il cuore, che correre a correggerlo, spesso essendo già troppo certi di sapere come fare.

Aiutare a RICONOSCERE. Soprattutto ciò che vivono: a partire dalla loro tristezza, dal loro cuore freddo, dal loro non capire e dai loro dubbi. Si tratta di sostenerli nella fatica di dare un nome alle loro poche gioie e alle loro tante paure. “Perché siete tristi?”. Non è ancora insegnare o annunciare, è una forma di ascolto che scende in una condivisione di livello più profondo.

INTERPRETARE. Alla luce di un annuncio della Parola, che tale deve essere e restare: cioè Parola e non chiacchiera. Parola che ci sovrasta tutti e sotto la cui obbedienza ci poniamo anche noi. Usare versetti biblici come strumenti per affermare il proprio potere e la propria supposta sapienza, nel Vangelo delle tentazioni è uno stile tipico del demonio, non di Gesù né della Chiesa. Si tratta di interpretare invece il vissuto alla luce di una Parola che sgorga da un cuore attento e vicino, ma anche audace nel richiamare alla verità ed alla concretezza: «stolti e tardi di cuore a credere».

ATTENDERE. Entrando con i giovani nella notte della fede. Perché oggi il cammino verso l’alba di una fede luminosa è tutt’altro che semplice e non può sgorgare da una pretesa. Martini ricordava con tenerezza quanto fosse moderna l’icona della Madonna del Sabato Santo, che ci insegna ad attendere con pazienza e speranza la maturazione della fede nella resurrezione.

CELEBRARE. Facendo entrare la luce della Grazia attraverso il Sacramento, ben dentro i gesti della comunione umana. In particolare attraverso la celebrazione della Parola, per riscaldare il cuore e illuminare la mente. E attraverso il dono del Pane, che trasmette e nutre soprannaturalmente la fede: così «si aprirono i loro occhi».

LASCIARE. Perché la fede si trasmette per testimonianza e non per proselitismo. Perché si legano le persone a Cristo, non a se stessi o peggio a una ideologia. Gesù seppe lasciare i due di Emmaus. Solo così loro, restati soli almeno per gli occhi del corpo, scelsero liberamente di tornare a Gerusalemme nella comunità da cui erano usciti, per vivere insieme la gioia della fede ritrovata.

Sono sette passi che articolano un nuovo stile pedagogico di riannuncio della fede con cui è utile confrontarsi. Nel resto del Documento si trovano tanti passaggi con cui riempire questa griglia di esempi e indicazioni per una corretta lettura del reale.

Siamo solo agli inizi di un rinnovamento della Pastorale giovanile, ci attende un percorso certamente non semplice, ma credo si possa dire che siamo in tanti e già da qualche tempo sulla buona strada e camminiamo nella direzione giusta.

(L’autore è anche delegato per la Pastorale giovanile della Conferenza episcopale marchigiana)

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