Forse – pensi – hai sbagliato direzione. In effetti, i cartelli segnaletici con la scritta “zona industriale” suggerivano la seconda uscita della rotatoria, in direzione di un grande complesso produttivo: quasi una cittadella, con gli autoarticolati tirati a lucido, allineati davanti alle baie di carico dell’edificio più esterno. Ma forse è meglio così. Spesso le vie secondarie offrono scorci inattesi.

Il centro storico di Appignano è formato da un pugno di case che circondano il palazzo comunale, e da vicoli così stretti che se provi a passarci con la macchina rischi di rimanere incastrato. Intorno al centro si sviluppa la zona residenziale: qui le abitazioni si alternano ai negozi, e alcuni edifici che un tempo ospitavano le esposizioni di mobili appaiono in stato di completo abbandono. E poi la periferia, fatta di case, orti e capannoni. Saracinesche abbassate, finestre impolverate che riflettono la luce del sole al tramonto.

Qualcuno, prima o poi, dovrà provare a raccontare fino a che punto lo sviluppo economico, dal secondo dopoguerra in poi, abbia modificato la struttura urbanistica e sociale dei borghi marchigiani, e come anche i nuovi scenari globali stiano iniziando a lasciare il segno del loro passaggio, sugli edifici e tra gli uomini.

Proprio ad Appignano, nei giorni scorsi, si è svolto il 54° Convegno di “Studi Maceratesi”. Una delle relazioni riguardava la nascita e lo sviluppo dell’industria del mobile. Tema interessante, basato per una volta non sullo studio di fonti archivistiche, ma sulla testimonianza diretta di alcuni protagonisti di quella che è stata definita una “epopea appignanese”: il mestiere imparato nelle botteghe artigiane, l’apertura delle prime fabbriche.

Un’epoca in cui, per mancanza di spazio, si lavorava anche all’aperto, e i mobili erano trasportati con il biroccio. E infine il consolidamento dell’impresa, l’espansione verso nuovi mercati. La relazione non intendeva trattare, è stato detto esplicitamente, i mutamenti di scenario intervenuti negli ultimi anni. Resta però da comprendere se, e in che modo, sarà possibile completare la transizione che dal biroccio potrebbe condurci alle soglie dell’industria 4.0.

Detto in altre parole, si tratta di valorizzare la sapienza artigiana presente nei nostri borghi ricchi di storia, attraverso le opportunità offerte dalle tecnologie innovative e dalla connettività. Esistono già esperienze significative al riguardo, e sarebbe interessante valorizzarle. Progresso tecnologico e progresso sociale possono viaggiare di pari passo, a patto che si abbia una chiara visione del traguardo da raggiungere. E qui il discorso si fa necessariamente politico.

Come ha scritto il giornalista Luca De Biase, in un articolo comparso sul Sole 24 Ore lo stesso giorno in cui si è celebrato il convegno di Studi Maceratesi, le tecnologie innovative generano valore perché abilitano le persone a trasformare i processi, migliorando la produttività e la qualità del lavoro. A patto di non avere paura, <perché la paura è un ottimo strumento per il governo delle coscienze, ma non per lo sviluppo dell’imprenditorialità e dalla creatività richieste dalla grande trasformazione dell’economia della conoscenza>.

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