di Giuseppe Tognon

“Elite” è una parola francese che, in breve, indica “quelli bravi”. Ci ricorda che c’è sempre chi insegna e chi apprende, chi comanda e chi obbedisce. Non dice però come questo avviene e infatti esercitare l’autorità e premiare il merito è un problema delicato. Senza i bravi non ci sarebbero idee nuove, né una sana competizione. Senza la vasta rete delle elite le nostre società sprofonderebbero in una mediocrità infinita.

L’idea di elite altezzose poste in cima al castello è una stupida caricatura suscitata dall’invidia sociale o dalla malafede. Scambiare l’ingiustizia sociale – che pure è enorme – con la questione delle elite è sbagliato: sarebbe come dire che per diventare tutti ricchi basta uccidere un ricco, che per diventare tutti sapienti basta uccidere il professore o che per diventare adulti bisogna sempre uccidere i padri. È una tentazione che ha avuto purtroppo esempi terribili nelle peggiori rivoluzioni totalitarie. Le elite non si contrappongono alle masse, ma sono nella massa come un lievito o come un enzima: la società è come un liquido in continua ebollizione e più diviene tecnologica più ha bisogno di elite che sappiano individuare ciò che è veramente importante e reale. Servono competenze diverse, soprattutto immateriali e spirituali. Alla moltiplicazione delle invenzioni deve corrispondere l’invenzione di elite sempre più diffuse.

Nessuna grande nazione moderna avrebbe potuto mai affermarsi senza l’impegno e il libero sacrificio di elite di grandi dimensioni, senza una borghesia popolare.

Nessuna cultura potrebbe svilupparsi senza migliaia di persone che si assumono la responsabilità di selezionare le idee. Perfino nella Chiesa – dove tutti sono fratelli in Cristo – c’è bisogno di pastori che non stiano in testa ma anche in mezzo al popolo e, se necessario, anche in coda, per difenderlo dai lupi. E siccome le nazioni, le culture, le Chiese non sono cose minori, si capisce subito che le elite che le hanno fatte diventare grandi sono state corpose, delle vere e proprie “elite di massa”, un vasto ceto medio che è cresciuto attraverso le lotte per i diritti, lo studio, i concorsi, la assunzione di ruoli pubblici, le responsabilità nelle imprese, il confronto politico. Nelle nostre società tutti siamo potenzialmente elite, per il semplice fatto di aver studiato, di poter disporre di molte facilitazioni, di conoscere molte persone e di poter viaggiare. Non tutti hanno le stesse opportunità, ma la strada non è preclusa e perché non lo sia bisogna tenerla sgombra da ostacoli posti ad arte.

Il problema della crisi delle elite è dunque il problema di quel ceto medio che è paralizzato dalle proprie delusioni.

Si è generato uno spirito di rapina che ha trasformato il merito in una “pretesa meritocratica” che spinge ciascuno a bruciare le tappe, a cercare scorciatoie, a pretendere subito onori, successo e ricchezza per il semplice fatto che si osa o che si è alla moda. Ma sappiamo che non è così, che la vita reale è davvero un’altra cosa. Anche se la fortuna conta molto, nessuno potrà mai scambiare un lavoro mediocre per un lavoro ben fatto.

All’opinione pubblica viene fatto credere che le elite sono tutte marce ed è giunta l’ora del popolo. Ma quel popolo non esiste, è solo l’ombra di quello che fu. La sua ombra serve per portare uomini e donne assolutamente impreparati a prendere il comando in quei Paesi dove è più forte è stata la crisi dei partiti. La complessità dei processi economici e tecnologici ha spezzettato la società in “universi individuali” così da distruggere ogni sentimento comunitario, ogni “spirito di corpo”, ogni giusta verifica. C’è allora chi usa la comunicazione per costruire falsi corpi sociali e vetrine di partecipazione. Siamo vittime di una martellante campagna di disprezzo nei confronti di ciò che ha un grande valore ma non ha un prezzo: l’educazione, i mestieri, lo studio, l’osservazione puntigliosa dei fatti, la cura delle cose e delle persone. Questo processo di frammentazione individualistica non funziona solo tra i ricchi che vivono di rendita, ma anche tra i poveri, i quali hanno l’esempio di una borghesia indolente che non vuole rimettersi in discussione.

Il disprezzo per la miseria materiale altrui è un sentimento terribile che maschera il disprezzo per una propria miseria morale.

La propria infelicità diventa un’arma micidiale se rivolta contro chi sta peggio.
Come smontare, allora, il falso mito della contrapposizione tra elite e popolo? Prima di tutto, mostrando che moltissimi tra noi sono già elite e che non si può fare finta di non esserlo. Poi intensificando i momenti di ascolto, anche attraverso nuovi strumenti di partecipazione alle decisioni. Infine, allargando e non restringendo, sia pure con ordine e metodo, la cittadinanza a chi ne è sprovvisto. È necessario essere più esigenti gli uni con gli altri per far ripartire il motore delle elite di massa. Non è detto, allora, che la crisi politica in cui siamo non possa presto portare ad una rinascita della coscienza civile di quella strana “elite di massa” che siamo, per far rinascere una nuova borghesia europea.

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