di Giovanna Pasqualin Traversa

New technologies, intelligenza artificiale (AI), robotica: opportunità o rischi? Potenzialità o minaccia? L’opinione pubblica mondiale è divisa tra aspettative e timori. La paura più diffusa è quella di una massiccia perdita di posti di lavoro. Marita Carballo è la presidente della Academia Nacional de Ciencias Morales y Políticas de l’Argentina e della World Association of Public Opinion and Research (Wapor), associazione professionale internazionale che conduce ricerche scientifiche sull’opinione pubblica in tutto il mondo. La abbiamo incontrata in Vaticano, durante il workshop “Robo ethics. Human, machines and health”, promosso nei giorni scorsi dalla Pontificia Accademia per la vita.

Dal suo osservatorio di analisi globale, qual è l’atteggiamento dell’opinione pubblica mondiale nei confronti della robotica e dell’intelligenza artificiale?
In questi anni abbiamo condotto survey a livello regionale, nazionale, continentale e mondiale. Dando una lettura semplificata, ma globale, posso affermare che circa il 70% dei “cittadini del mondo” ritiene che la rivoluzione tecnologica 4.0 abbia apportato e possa apportare benefici nella vita delle persone. Le maggiori attese sono in materia di salute (48%) e contrasto ai cambiamenti climatici (45%). Opinione pubblica divisa invece su occupazione e lavoro. In particolare in Europa, i vantaggi legati alle nuove tecnologie e all’AI vengono percepiti nella sfera privata del “life at home” e in termini di maggiore efficienza e velocità delle comunicazioni e dei trasporti. Un’indagine condotta in 18 Paesi latino-americani rivela invece che il 36% dei cittadini oppone perplessità o addirittura resistenza all’impiego di robot, droni, auto a guida autonoma, sensori corporei. In Argentina solo il 25% dei millennials si dice favorevole alle nuove tecnologie, ma esprime cautela sull’ipotesi di salire a bordo di un’auto a guida autonoma, di farsi operare a distanza o da un robot, di mangiare carne prodotta artificialmente in laboratorio.

In generale, i più “aperti” sono gli uomini di età inferiore ai 35 anni e in buone condizioni economiche.

Intelligenza artificiale, piattaforme digitali e nuova arena socio-politica. Che relazione c’è?
Oggi le piattaforme e i social media sono una fonte chiave di informazione politica e sociale. Nelle Americhe sei utenti di Internet su dieci affermano di seguire le questioni politiche e sociali soprattutto sui network, ma solo il 13% percepisce la reale qualità e attendibilità delle news ricevute rispetto a quelle fornite dai media tradizionali, mostrando così scarsa capacità di critica e un alto livello di accettazione. Tuttavia, secondo la Gallup International Association, quasi 8 persone su 10 – e questo in tutto il mondo – ricevono fake news almeno una volta al mese (76%), mentre in media il 35% ne riceve tutti i giorni. Con punte molto alte in Ungheria (65% dei cittadini), Ucraina (61%), Spagna (60%) e Albania (56%). L’Edelman Trust Barometer rivela che la fiducia in queste fonti sta diminuendo. Da uno studio del Pew Research Center (Usa) emerge che due terzi (66%) dei link twittati sui siti di notizie più popolari vengono postati da account automatizzati, mentre solo un terzo (34%) è pubblicato da persone. Insomma, su queste piattaforme digitali

a gestire buona parte delle news è un esercito relativamente piccolo di robot altamente attivi.

Sui social, disinformazione e manipolazione sono dunque in agguato, soprattutto quando troll e hate speaker “si alleano”.

Quali impatti sul futuro dell’occupazione e dell’inclusione sociale?
Secondo un’autorevole ricerca, circa 1,8 milioni di posti di lavoro saranno spazzati via entro il 2020, ma ne verranno creati oltre 2,3 milioni. Spariranno i lavori ripetitivi e quelli a rischio, fisicamente dannosi o pericolosi per l’uomo, in particolare quelli che lo espongono a sostanze chimiche tossiche. Tuttavia, l’impatto della robotica e dell’automazione sul mercato del lavoro è oggetto di dibattito nell’opinione pubblica. Da un lato, i pessimisti vedono la rivoluzione tecnologica come una minaccia e anticipano che la rivoluzione digitale porterà inesorabilmente alla distruzione di posti di lavoro. In America latina lo pensano quattro persone su cinque, percentuale alta anche in Malesia e nelle Filippine. All’estremo opposto, gli entusiasti – soprattutto in Scandinavia e Germania – sostengono che verranno creati più posti di lavoro, mentre le mansioni ripetitive e rischiose e dannose per la salute dell’uomo verranno svolte da robot. Le persone si dedicheranno quindi a lavori creativi e qualificati, attività che le macchine non saranno mai in grado di svolgere, ma certamente

le classi più vulnerabili, più povere e con un basso livello di istruzione sono esposte al rischio perdere il lavoro.

L’accettazione dell’intelligenza artificiale e della robotica aumenta invece quando esse costituiscono un “supporto” all’azione umana, ma senza sostituirla. Ad esempio vengono definite “utili per assistere i medici, ma non per sostituirli”.

In questo scenario, quali sono le sue conclusioni?
Innanzitutto penso sia necessario implementare codici etici per progettisti e produttori di robot, ma tutta la rivoluzione tecnologica legata alla AI richiederebbe una riflessione e un’analisi interdisciplinare delle conseguenze psicologiche, culturali, sociali e politiche della robotica sulla società. Dobbiamo inoltre evitare l’inasprimento delle disuguaglianze, l’approfondimento del gap tra “inclusi” ed “esclusi”. Per questo è urgente un investimento globale in educazione e formazione per qualificare e professionalizzare i soggetti “tecnologicamente vulnerabili”, privi degli skill indispensabili. Un’operazione culturale a vasto raggio che non sarà un processo breve e i cui risultati si vedranno nel medio periodo. Robotica e AI non sono né buone né cattive in sé. Certamente hanno trasformato e continueranno a trasformare velocemente l’ambiente i cui viviamo mentre noi siamo molto lenti nel decidere come regolarle e orientarle. Ma la domanda cruciale rimane sempre la stessa:

su quali valori vogliamo costruire le nostre società?

E la risposta deve nascere da un serio confronto tra voci, sguardi, sensibilità e culture diverse per arrivare a generare un consenso che porti ad un’azione condivisa tra governi, mondo accademico, imprese e società civile.

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