«Ciao pa’!». Il saluto è secco, come il rumore dello sportello dell’auto che si chiude. Solo sei lettere, tutte sbilanciate verso una nuova giornata di scuola da affrontare con il passo indolente di un quattordicenne. Squarci di futuro che noi adulti, come da copione, trasformiamo in interrogativi destinati a rimanere senza risposta. Quale sarà il lavoro dei nostri figli? Quali strade percorreranno?

Proprio gli scenari futuri del mondo del lavoro sono oggetto di uno studio (“Work for a brighter future”) pubblicato all’inizio dell’anno dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro. Lo slogan che ricorre più volte nel rapporto è quello di “accompagnare le transizioni”: prestare attenzione soprattutto ai momenti di passaggio, quando le identità e le certezze acquisite debbono essere convertite in qualcosa d’altro.

Il mondo del lavoro è attraversato da nuove sfide che stanno mutando radicalmente lo scenario produttivo: i progressi tecnologici determinati dalla automazione e dalla robotica; i cambiamenti climatici che spingono decisamente verso la green economy; quelli demografici, con una popolazione che invecchia rapidamente soprattutto in Europa, contrariamente a quanto sta accedendo nel continente africano. Come sempre accade nel corso delle transizioni, i pericoli si alternano alle opportunità: le nuove tecnologie non porteranno alla scomparsa del lavoro immaginata da qualcuno, ma alla comparsa di nuove attività (un altro studio citato dal World Economic Forum ha sottolineato come il 65% dei bambini che frequentano attualmente le scuole primarie faranno lavori di cui oggi ignoriamo perfino il nome…).

Le abilità che consideriamo indispensabili non corrispondono ai lavori di domani, e perfino quelle che oggi consideriamo “nuove competenze” potrebbero diventare in breve tempo obsolete. I lavoratori del Web potrebbero trasformarsi nei nuovi braccianti digitali, sottopagati e precari. Insomma, le nuove sfide si sommano alle tensioni già presenti nel mondo del lavoro, e generano paure a volte irrazionali. Minacciano di erodere la prosperità condivisa e la fiducia su cui si basano le istituzioni democratiche, dando voce – sottolinea il rapporto – alle spinte isolazioniste e al populismo.

Che fare, dunque? Una delle soluzioni proposte consiste nell’invito (rivolto a governi, datori di lavoro, rappresentanti dei lavoratori e istituzioni educative) a dare vita ad un “ecosistema di apprendimento permanente” in cui ciascun individuo sia sostenuto soprattutto nei delicati momenti di passaggio: dalla scuola al lavoro; dal vecchio lavoro ad una nuova occupazione; dal lavoro ad una uscita dal lavoro operosa, che sappia valorizzare l’esperienza acquisita negli anni. Formazione formale ed informale, che si alterna a periodi di lavoro. Tuttavia l’apprendimento permanente implica molto più delle capacità necessarie per un addestramento professionale. Si tratta infatti di sviluppare anche le competenze necessarie per partecipare attivamente alla vita democratica. E qui, come si vede, il discorso torna ad assumere una valenza politica di strettissima attualità…

Le transizioni si accompagnano, il futuro si crea. Lo sforzo deve esser quello di trovare risposte credibili alle paure delle persone, e sbloccare le innumerevoli opportunità che i cambiamenti possono veicolare. Altrimenti, senza un’azione decisa, rischiamo di vagare come sonnambuli in un mondo da incubo che allarga le diseguaglianza, aumenta l’incertezza e alimenta l’esclusione sociale. Con buona pace del quattordicenne indolente, dei suoi squarci luminosi verso il futuro, e delle domande inespresse che è impossibile, per noi adulti, attraversare.

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