La stanza nella quale sei appena entrato è buia. Sparsi sul pavimento ci sono alcuni cuscini sui quali sedersi. Sulla parete di fondo scorre a ciclo continuo un’opera di Ryoji Ikeda, artista e compositore giapponese di musica elettronica. Ti trovi a Roma per lavoro, e hai approfittato di qualche ora libera per andare a visitare una mostra di arte contemporanea, Dream, l’arte incontra i sogni.

Vicino alla tenda all’ingresso, un cartello avvisa che la visione dell’opera può provocare vertigini. Ora comprendi perché. Lo schermo proietta sequenze ipnotiche di numeri bianchi che precipitano velocissimi, poi si fermano, quindi invertono improvvisamente la direzione. Impossibile distogliere lo sguardo. Assi cartesiani in movimento individuano punti nello spazio definiti da stringhe alfanumeriche. Frequenze anomale, bit, pixel, pulsazioni. Atomi di suono puro, fruscii di fondo. Il battito di un cuore giunge filtrato dal liquido amniotico di cifre nel quale ti senti immerso e che ti affascina inspiegabilmente. Non riesci più ad uscire dalla stanza.

Che sia proprio questo, ti viene da pensare, quello che accade nell’universo digitale? Il suo lato segreto, l’officina di algoritmi che governa il flusso di informazioni e di rapporti che finisce per rinchiuderci (che paradosso!) in gabbie dalle quali non siamo più in grado di liberarci?

Walter Quattrociocchi, docente di scienze informatiche all’università di Venezia, ha recentemente affermato che quando navighiamo in rete consumiamo solo informazioni conformi alla nostra visione del mondo: le altre non le prendiamo neanche in considerazione. Adottiamo cioè strategie cognitive primitive. Come i cavernicoli del film “ I Croods”, ci dividiamo in tribù all’interno delle quali celebriamo il nostro credo condiviso. Detta in altri termini, si tratta di un aspetto preoccupante e irrazionale di polarizzazione delle opinioni, chiamato anche echo chamber: un ambiente chiuso in cui le informazioni, le idee o le credenze rimbombano in continuazione, finendo per autoalimentarsi. Di fronte a questo fenomeno, tentare di fronteggiare il dilagare delle fake news solo con una verifica puntuale dei fatti e delle fonti, rischia di essere poco efficace.

Per rompere l’incantesimo, sarebbe necessario cercare di limitare le derive emotive e polarizzanti della comunicazione e della stessa informazione. Uscire dalla stanza, insomma, cercare di abbatterne i muri.

Già nel 1998 (età davvero preistorica per Internet) il sociologo francese Michel Maffesoli individuava il tratto caratterizzante della post–modernità proprio nell’incontro tra arcaico e tecnologico. Nella rete – affermava – nascono in continuazione vere e proprie tribù tenute insieme da un collante di emozioni. E si spingeva ad affermare che la diffusione di Internet, e dei suoi micro gruppi, era la prova lampante della crisi della modernità e dei suoi valori universali.

Le sue parole risuonano profetiche: ci sono conquiste di civiltà che sembravano acquisite in via definitiva e che invece traballano pericolosamente. Le tecno–tribù veicolano emozioni che invece di svanire aumentano di volume a ogni passaggio di testimone. Lo sanno bene quei politici che fomentano odio e invitano alla mobilitazione in nome di una perenne emergenza.

No, nessuna corazza, pensi uscendo dalla stanza che ti aveva inghiottito. Sono le capacità di ragionare e di provare tenerezza, le caratteristiche che ci rendono uomini. Non lasciamoci arruolare. Piuttosto disertiamo. Alziamo le mani nude, e andiamocene altrove.

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