di Stefano De Martis

“Un librino di bilancio e di reazione”. Così Paolo Pombeni definisce il suo ultimo lavoro intitolato coraggiosamente La buona politica. L’autore scrive che lo stimolo per questo agile volume edito da “Il Mulino” gli è venuta dalla lettura dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam e viene spontaneo pensare che occorra davvero un po’ di santa pazzia per parlare oggi di “buona politica”. Eppure, se la vecchia politica è irripresentabile e la nuova politica delude o inquieta, non sarà che proprio la via della buona politica sia l’unica ragionevole? Pombeni, professore emerito dell’università di Bologna, è uno storico autorevole (sua, tra mille altre imprese, è l’edizione critica degli scritti e discorsi politici di Alcide De Gasperi) e uno studioso tra i più acuti dei sistemi politici e del loro funzionamento. Questi due elementi si ritrovano nel “librino” in cui la brillante analisi della situazione odierna è unita alla sintetica quanto efficace ricostruzione dello spessore storico dei problemi, rivissuta anche attraverso il filtro dell’esperienza personale. E questo è il “bilancio”. Quanto alla “reazione”, bisogna subito chiarire che nell’argomentato discorso di Pombeni non c’è alcuna nostalgia del tempo fu. Piuttosto, c’è la volontà di non rassegnarsi alla cattiva politica e la convinzione che per la buona politica non esistano ricette dettagliate né sia possibile costruirle a priori. Come si legge nella pagine conclusive del libro, “ci vuole un lavoro integrato fra pensiero, esperienze di vita, analisi continua dei movimenti che avvengono intorno a noi e dentro le comunità: qualcosa che richiederà tempo per essere portato a compimento, ma che va immaginato come un itinerario in cui il cammino e le tappe intermedie sono già fasi di realizzazione parziale degli obiettivi. Sarà un’operazione che deve puntare a coinvolgere il maggior numero possibile di forze e di esperienze presenti: con l’umiltà necessaria per farlo, perché la superbia non è adatta a creare solidarietà nella condivisione del destino”.

Dal testo di Pombeni, abbiamo provato a estrapolare alcune parole-chiave della buona politica.

Comunità di destini. “Sebbene siamo di fronte al ritorno del meccanismo dell’inclusione legato alla tradizionale dinamica del rapporto amico/nemico, esso non crea quel fenomeno fondamentale che è la solidarietà politica. (…). Che cosa manca dunque oggi? Mi servo di una bella definizione che diede Max Weber per spiegare le reti di connessione che dovevano esistere in uno spazio politico comune: riconoscersi come una una ‘comunità di destini’. E’ una definizione molto pregnante, perché la condivisione di un destino comune, a cui come corpo politico e in larga parte anche come singoli componenti non ci si può sottrarre, implica un dovere non solo di solidarietà in questa condivisione, ma di lavoro di tutti perché questo destino possa essere favorevole per la collettività e per i suoi componenti”.

Bene comune. “Si tratta di un concetto, fino a non molti anni fa considerato obsoleto, che è tornato qualche volta in auge per difendere la proprietà pubblica di qualche servizio. (…). Non è questo però il bene comune. Esso è la consapevolezza che ogni comunità di destini ha un capitale che consiste proprio nel far capo di ogni sua ‘ricchezza’, materiale o immateriale che sia, compresa quella che è data dal patrimonio di creatività che ogni suo membro porta in sé, al fine di essere strumento della crescita e della riuscita di quella comunità nel suo insieme”.

Ragione e passione. “Se vogliamo avere una buona politica è necessario invece riuscire a compattarci, per quanto in maniera dialettica, nel volere una politica razionale, senza per questo privarla della passione per l’ideale. Ragione e passione sono i pilastri della buona politica, a patto che sappiamo che non si può scambiare per ragione tutto quello che passa per il cervello e per passione tutte le esaltazioni, per non dire i fanatismi, di chi opera in questo campo: anche se la passione vera rimane essenziale se si vuole, come si sarebbe detto una volta, che la storia vada avanti”.

Confronto. “E’ qui che si presenta il pericolo che (…) si lasci lo spazio a chi ha in mano la facile scorciatoia per costringere una comunità a compattarsi momentaneamente: creare l’angoscia del dissolvimento denunciando l’assalto di uno o più nemici. (…). La ragione politica deve prendere molto sul serio questo pericolo, e ricominciare con lena l’opera di costruzione di una coscienza comune che rilanci il valore del governo attraverso il confronto come strumento più adatto per creare quella sintesi finale di identità e di valori indispensabile perché si sia consapevoli di vivere in una comunità che ha sì un destino comune, ma che deve essere un destino comune di crescita e di sviluppo delle persone e delle loro aggregazioni”.

Sistema. “E’ fondamentale che si ricostruisca la coscienza che la democrazia non è semplicemente un ‘metodo’ (affidare ogni cosa al libero dibattito che poi si fa precipitare in pronunce elettorali), ma un ‘sistema’. Di conseguenza essa suppone continuità proprio perché nella loro azione comune e coordinata i suoi organi rappresentano il popolo, che rimane sempre se stesso: non è che ad ogni tornata elettorale si genera un ricambio di popolo e quel che c’era prima non conta più. Ciò non significa affatto negare possibilità di cambiamento e di evoluzione, ma che è necessario tener conto che si modifica una storia legittima e si realizzano obiettivi che a loro volta potranno essere modificati, ma sempre nel rispetto dei legami che hanno stabilito con il passato”.

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