di Nazzarena Luchetti

Qualche anno fa intervistai il giudice Giuseppe Ayala. L’ex pm siciliano è noto non solo per aver fatto parte del pool antimafia più famoso di tutti tempi, quello con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche per i tanti interrogativi in sospeso che pesano sulla sua persona legati soprattutto alla famosa agenda rossa di Borsellino, sparita appena dopo l’attentato di via D’Amelio.

Nel corso dell’intervista, chiesi ad Ayala quanto fosse credibile il Consiglio superiore della magistratura e quanto fosse cambiato da quel 1988, anno in cui il plenum del CSM (con la sola eccezione del “falconiano” Gian Carlo Caselli)  nominava Antonino Meli alla direzione dell’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo, preferendolo a Falcone. Una vera e propria congiura contro colui che per la legalità sacrificò la vita: “Quella fu la pagina nera del Csm che altro non è che il servo obbediente delle correnti dell’associazione magistrati: là tutto si decide per lottizzazioni. E poichè in tutte le correnti ci sono dei bravi magistrati, allora capita che alcuni incarichi vengano dati alle persone capaci. Ma è un caso, non una volontà”. Parole sconcertanti in cui Ayala fa intendere lo status vergognoso in cui versa la giustizia italiana.

Ma ancora più sconcertante è il commento di qualche giornalista che, in merito all’ultima inchiesta sulle toghe, afferma che non vi sia nulla di male nella spartizione del potere all’interno dell’apparato giudiziario: “in fondo sono uomini, con tutto il diritto alle debolezze umane, come quello di associarsi, di sbagliare qualche sentenza o prolungarla”. In altre parole, non si richiede di essere ne santi ne eroi. Una considerazione erronea e almeno per due motivi. Escludiamo, in questo contesto, la santità a cui per la cultura cattolica siamo tutti chiamati (non servono necessariamente i miracoli!) e rimaniamo sul terreno della civile grandezza, quella dell’eroismo.

C’è una differenza tremendamente evidente tra il riconoscere l’imperfezione come fatto intrinsecamente umano e quella di erigerla a giustificazione del proprio operato sminuendo l’intenzionalità delle scelte. In altre parole, si agisce male perché lo si vuole. Si è corrotti perché ci si lascia corrompere. Non si fa il proprio dovere perché non c’è più piacere a farlo, essendo stato svuotato del suo valore eroico. Invece, adempiere fino in fondo al proprio dovere è l’eroismo più grande, la vera sfida ai nostri difetti, l’affermazione della nostra dignità.

E questo è l’altro motivo per cui non ci si può rassegnare alla debolezza umana come causa e giustificazione di una cattiva condotta, perchè allora tutto è permesso, compresa la distruzione della morale e dell’ordine sociale. Ne consegue l’indulgenza per ogni mancata assunzione di responsabilità e il sospetto che seguire le regole sia un inutile spreco di tempo. Si promuove così un tipo di eroismo di chi riesce a raggiungere la posizione più alta, quella che apre tutte le porte, che considera il giusto o l’ingiusto a seconda del momento e della bandiera.

Secondo l’articolo 104 della costituzione, “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Per questo nei magistrati vengono riposte le speranze terrene dei giusti che possono veder riconosciute le loro ragioni. Proprio perché devono prendere decisioni che incideranno sulla vita degli altri, i magistrati devono possedere non solo una preparazione giuridica ma anche una elevata caratura morale che non si fondi sul consenso sociale ma su valori universali.

Ma su cosa si fonda la corruzione dilagante e la divisione partitica che caratterizza il Csm se non in una alienazione del diritto e la cultura del profitto? “E’ trascurato il diritto, e la giustizia se ne sta lontana, la verità incespica in piazza, la rettitudine non può entrarvi. Così la verità è abbandonata” (Isaia 59,14).  Verità che si piega alle tante correnti che si trovano ai vertici del consiglio superiore della magistratura, dove vengono decisi tutti gli incarichi, politici ed economici: strategici a tutte le mutevoli convenienze.

Lo strapotere giudiziario permea ogni aspetto della vita pubblica, forte e spavaldo, al riparo di condanne esemplari, date l’impunità e l’immunità della loro posizione privilegiata. Si chiedono nuove regole da applicare al Csm ma i giochi di potere a cui continuiamo ad assistere ci fanno capire che nessuna riforma della magistratura può essere efficace se prima non avviene quella delle coscienze. Per queste non può essere ammessa alcuna autogiustificazione.

Socrate, che ha cercato la verità per tutta la vita, si accusava di non sapere e di non essere mai abbastanza. Per ritornare ad ascoltare la coscienza, bisogna ripartire dall’esempio del filosofo greco: solo “liberandomi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13) posso riconoscere quella voce che sta più in alto e va al di là dei propri gusti e del proprio vantaggio. Solo anteponendo il dovere al potere, i valori della legalità si faranno concreti e smetteranno di essere un accessorio da esibire solo nelle sentenze o nelle commemorazioni di tanti eroi.

Eroi che hanno svolto straordinariamente bene il proprio ordinario dovere.

Approfondimenti: Platone L’apologia di Socrate

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