di Daniele Rocchi

“Quando si parla di dialogo tra religioni si tratta di definire bene a chi ci si rivolge: si parla tra religiosi, tra credenti o tra persone che appartengono a culture diverse”. Come dire è importante “conoscersi per capirsi e capirsi per convivere”. Ne è convinto il politologo francese Olivier Roy, co-presidente del Robert Schuman Centre for advanced Studies (Rscas), e titolare della cattedra di Studi Mediterranei all’European University Institute che ieri è intervenuto al Meeting di Rimini insieme a Muhammad Bin Abdul Karim Al-Issa, Segretario Generale della Lega Musulmana Mondiale. È stato proprio il tema del dialogo con l’Islam a fare da sfondo all’incontro a margine del quale il Sir ha rivolto alcune domande al politologo.

Qual è la difficoltà maggiore che si può incontrare nel capire e conoscere l’Islam?
“È la fatica a concepire l’Islam come una religione perché si tende a vederlo attraverso il prisma dell’ideologia politica, dunque dell’islamismo oppure attraverso quello della cultura e del mondo arabo. Bisogna tornare invece alla sua dimensione religiosa ricordando che

non tutti i musulmani sono credenti, così come non tutti gli europei sono cristiani.

Oggi poi c’è uno scollamento tra le comunità di fede e la cultura circostante che è sempre più secolarizzata e laica. Secolarizzazione che sta investendo anche il mondo musulmano ed è particolarmente visibile nei Paesi del Maghreb (l’area più a ovest del Nord Africa che si affaccia sul Mediterraneo e sull’Atlantico, ndr.)”.

Con quali conseguenze?
In Egitto il presidente Al Sisi ha vietato per legge l’ateismo. C’è infatti una fetta crescente di persone che non sono credenti e che rivendicano il loro ateismo.

Anche in Tunisia sta accadendo qualcosa di analogo dove lo slancio di secolarizzazione riguarda le classi medie e alte della società che chiedono una laicità alla francese con una separazione tra religione e Stato.

Nel Maghreb ci sono movimenti crescenti che invocano la libertà di praticare o meno il Ramadan. In Iran abbiamo una popolazione secolarizzata come reazione al regime.

La secolarizzazione potrebbe influenzare il dialogo tra le religioni?
Certamente ha un impatto evidente sia nel mondo musulmano che in quello cristiano. Questi movimenti mostrano che c’è uno scollamento tra chi rivendica una secolarizzazione e chi no. Una ventina di anni fa i rigurgiti fondamentalisti erano molto più forti come testimonia la presenza di un numero maggiore di partiti islamisti rispetto ad oggi. In Paesi come Tunisia e Marocco oggi predominano partiti che potremmo definire normali. In Algeria abbiamo visto scendere in piazza un milione di dimostranti che inneggiavano alla nazione e alla democrazia senza sventolare nemmeno una bandiera verde.

Questo fenomeno della secolarizzazione ha riflessi anche sull’Islam europeo?
Ci sono due tendenze: una fondamentalista di stampo salafita, che agita lo spauracchio della perdita delle radici dell’Islam, e una più liberale che è una forma di Islam sempre più laico e secolarizzato. La tendenza fondamentalista è stata molto viva negli anni ’90 e 2000 ma ora è in calo.

L’Islam più liberale è invece in crescita per l’avvento di una generazione di classe medio alta espressione della seconda generazione che ha acquisito un status socio economico diverso. Lo si vede in Paesi come Francia, Regno Unito e Germania dove addirittura si assiste alla nascita di una borghesia musulmana. Fenomeno che non abbiamo ancora registrato in Italia e Spagna.

Resta, tuttavia, la percezione negativa che l’Europa e il mondo occidentale hanno dell’Islam. Perché?
È una percezione riconducibile ad un conflitto di natura politica. Basti pensare alla rivoluzione iraniana del 1978 che trasformò la monarchia del paese in una repubblica islamica sciita e che diede l’immagine di una rivoluzione radicale e politicizzata. In tempi più recenti abbiamo assistito alla radicalizzazione sfociata nella matrice terroristica a partire da Al Qaeda.

La questione islamica è stata spesso sovrapposta al terrorismo:

alcuni hanno teorizzato che le radici del terrorismo  andavano ritrovate nel Corano e nella religione. Oggi molti mufti e teologi islamici hanno avuto una forte presa di coscienza sulla necessità di assumere posizioni più dialogiche e di esporsi per queste. Cose che fino a qualche anno fa erano impensabili se non altro per le motivazioni politiche legate al conflitto arabo-israeliano, alla guerra in Iraq e in Siria.

Il fenomeno migratorio pare alimentare questa percezione negativa perché viene spesso associato alla presenza islamica…
Questa tesi poteva avere una sua validità negli ’60 e ’70 quando le migrazioni da Paesi come la Turchia, e dal Nord Africa erano legate alla ricerca di lavoro. Oggi le migrazioni sono molto più estese e i migranti arrivano da tante parti del mondo. È una associazione che non ha più valore.

A proposito di dialogo, in che modo il mondo islamico ha giudicato il documento sulla fratellanza sottoscritto ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal grande Imam di Al Azhar, Al Tayyib?
Ha espresso un grandissimo apprezzamento. Si tratta di una svolta epocale come testimoniato anche da Muhammad Bin Abdul Karim Al-Issa, Segretario Generale della Lega Musulmana Mondiale. Un fatto così significativo fino a pochi anni sarebbe stato impensabile. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di firmare un testo simile soprattutto tra i musulmani.

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