di Patrizia Caiffa

“Non si smette mai di essere missionario. L’esperienza del fidei donum mi ha cambiato la vita, mi ha dato un respiro e una apertura nuova. Anche nelle parrocchie più tradizionaliste riesco a far vedere un modello diverso di Chiesa, più accogliente ed aperta verso tutti”. Don Alberto Brignoli, 52 anni, bergamasco, è stato sacerdote fidei donum a Cochabamba, in Bolivia dal 1997 fino al 2006. Ha vissuto con la popolazione quechua nella zona andina, a 4.000 metri di altitudine. Ha lavorato dal 2007 al 2011 alla Fondazione Cum nella formazione dei missionari in partenza per l’America Latina e poi con l’ufficio Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese fino al 2015. Per quattro anni parroco in pianura, da pochi giorni è tornato sui monti, a Selvino, un paesino turistico di 2.000 abitanti in Val Seriana. Don Brignoli tornerebbe a fare il fidei donum “anche domani”, confida al Sir all’inizio di ottobre, mese tradizionalmente dedicato dalla Chiesa alla missione.

Un cambiamento radicale. Il movimento dei fidei donum, fondato sullo scambio e la collaborazione tra le Chiese e la missione ad gentes, ha visto negli anni un forte calo, in gran parte legato alla crisi delle vocazioni. Nato nel 1957 sulla spinta dell’enciclica “Fidei donum” di Pio XII, che invitava le diocesi di antica fondazione ad inviare preti nelle diocesi africane, ha avuto maggiore impulso nell’era post-conciliare e negli anni ’90, con una più ampia disponibilità di clero e uno slancio mondialista. Erano 40 i sacerdoti fidei donum in Africa nel 1968, hanno raggiunto il picco massimo di 1330 nel 1996 per poi iniziare un lento, inesorabile, declino: erano 630 nel 2000, oggi sono 400, in maggioranza in America Latina e Africa.
Brasile, Argentina, Uruguay (le principali destinazioni dei migranti italiani), Cuba, Haiti, Ecuador, Bolivia sono i Paesi che registrano una maggiore presenza di sacerdoti fidei donum. In Africa i numeri più consistenti sono in Kenya, Niger, Costa d’Avorio, Etiopia, Zambia, Madagascar. Il cambiamento è stato radicale: oltre all’ingresso in massa di laici e famiglie fidei donum, negli ultimi vent’anni ci si è aperti alle piccole comunità di cattolici in Asia (Thailandia, Bangladesh, Turchia, Corea del Sud, Vietnam, Kazakistan) e perfino all’Oceania (Papua Nuova Guinea e Polinesia francese). Nell’America del nord ci sono due fidei donum in Canada e Stati Uniti. La diocesi di Roma ne ha inviato addirittura uno in Qatar, probabilmente per accompagnare i tanti expat che ci lavorano. Alcune diocesi hanno fidei donum in Albania. Tra le diocesi che hanno oggi più sacerdoti in missione nella lista aggiornata dall’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese spiccano (anche storicamente), quelle del nord Italia: Milano (33), Bergamo (28), Brescia (20), Padova (19), Bolzano (11), Verona (11). Roma ha una trentina di preti fidei donum sparsi per il mondo, più a sud solo Cagliari ne ha inviati 5 e Catania 3.

Oggi si parte per periodi più brevi di tre anni, rinnovabili due o tre volte.
Nell’ultima assemblea generale della Cei, nel maggio scorso, i vescovi italiani hanno ribadito “l’importanza di favorire la cura delle comunità etniche come di preparare i propri sacerdoti con un respiro ampio – cattolico –, capace di aprirsi alle necessità della Chiesa tutta, sia che questo significhi disponibilità a prestare servizio in un’altra diocesi, come pure a partire fidei donum, anche nelle comunità di italiani all’estero. Di tale orizzonte culturale, aperto alla mondanità beneficerebbe l’intero Paese”.

Le ragioni del “calo vertiginoso”. “Il calo è stato vertiginoso, dovuto principalmente al calo delle vocazioni – ammette don Brugnoli -. La mia gloriosa diocesi di Bergamo, ad esempio, oggi ordina uno o due preti l’anno, quando invece 25 anni fa eravamo 36/37. Credo che qualche giovane prete abbia ancora voglia di partire. In diocesi ne rientrano uno o due e ne ripartono altrettanti. Ma alcuni vescovi hanno avuto un po’ paura di donare preti alla missione perché veniva meno una forza interna alla diocesi. Altri sono stati più coraggiosi”. A suo avviso “tra i giovani c’è ancora un desiderio di missionarietà ma vedo anche un ritorno del tradizionalismo e una chiusura su forme tradizionali di ecclesialità che non la missione hanno poco a che vedere”. Sul fronte della missione il sacerdote bergamasco descrive “una Italia a due velocità: al nord ci sono maggiori possibilità economiche di sostenere progetti e mandare sacerdoti, al sud meno”. Tra le ragioni don Brugnoli individua anche minore attenzione alla missione, “non solo nella Chiesa italiana ma nella società. Mi sembra ci sia una paura del diverso, dello straniero, tensione sui temi legati all’accoglienza, per cui dire ‘aiutiamoli in casa loro’ diventa solo un proclama ma una proposta effettiva”. Il sacerdote pensa che l’istituto dei fidei donum può ancora essere attuale, anche se con “forme, modalità, tempi e scelte diverse”. “Mi auguro che non si perda mai lo spirito missionario – afferma – anche se le esigenze delle Chiese sorelle sono cambiate”.

Il clero straniero in Italia. Oggi ad esempio c’è il fenomeno al contrario, ossia preti non italiani che vengono ad operare nelle nostre parrocchie. È il caso dell’India del sud, della Nigeria, che sfornano un numero elevatissimo di sacerdoti. Attualmente sono in servizio pastorale (in convenzione con la Cei) 810 sacerdoti fidei donum stranieri e 620 sacerdoti stranieri studenti. Altri 1.178 sono religiosi stranieri presenti in Italia grazie ad accordi tra le diocesi italiane e le rispettive congregazioni o istituti. “C’è un discorso di cooperazione e scambio missionario molto più forte – precisa don Brugnoli -. Non dobbiamo vedere più la missione come un ‘andiamo e portiamo’. È uno scambio e un arricchimento reciproco. Magari domani i figli degli immigrati diventeranno forse missionari nei loro Paesi di origine, chi lo sa? Anche se al momento la vedo un po’ difficile, perché nemmeno i fidei donum stranieri hanno tanta voglia di tornare nel loro Paese”. E lei tornerebbe a fare il fidei donum? “Avevo 27 anni quando sono partito, forse adesso sarei un po’ più accorto. In Bolivia è stata una esperienza stupenda vivere con un popolo che ha 7.000 anni di storia, in una delle zone più povere del mondo, e riuscire a coniugare la novità del cristianesimo con la ricchezza delle loro tradizioni culturali. Ho nel cuore la Bolivia ma tornerei in America Latina. E chi lo sa? Mai dire mai”.

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