“Io mi sono laureata all’Università del Male con lode, ho imparato il Bene, dallo sterco ho estratto l’oro. Mi colpisce doppiamente quando oggi da una signora di Padova, all’uscita dalla chiesa, sento dire a un giornalista “che affoghino pure tutti gli emigranti”. E da un uomo di Lodi sento chiamare i bambini che non hanno accesso alla mensa comune “zecche di cani”. Mi spaventa il terrorismo cieco, il fanatismo islamico, il vento nero che soffia di nuovo in Europa e non solo. Mi chiedo come mai l’uomo non impari niente dai propri crimini e continui a perpetrarli: si fa sedurre da nazionalismi, razzismi, odi, egoismi. Costruisce muri, recinti di filo spinato, non ha pietà per chi fugge da guerre, fame, violenze e torture. Invece di confrontarsi con il passato nega la propria complicità e responsabilità per ciò che è accaduto ieri, accade oggi e potrebbe accadere domani. A che cosa sono serviti i gulag e i campi di sterminio?”.

Sono parole che pesano, ancora di più se a pronunciarle è una donna come Edith Bruck, scrittrice internazionalmente nota, poetessa e giornalista ungherese testimone dell’Olocausto. “La mia Università si chiama Auschwitz. Luogo assunto a simbolo del Male tra i 1635 campi di concentramento nella civilissima Germania, di cui alcuni nei paesi occupati e alleati con Hitler, compresa l’Italia”, ha detto oggi durante la sua intensa lectio doctoralis all’Università di Macerata che le ha conferito la laurea honoris causa in Filologia Moderna.

“Il felice incontro – ha sottolineato in apertura della cerimonia il rettore Francesco Adornato – fra la Poetessa e l’Università di Macerata può considerarsi paradigmatico della missione dell’Ateneo: raccogliere una memoria, custodirla e farne una consegna per le giovani generazioni di studenti. E non solo. Edith Bruck, con la testimonianza della sua scrittura e della sua vita, fa memoria e lancia il suo grido di dolore come monito all’umanità”.

Ad accogliere la scrittrice è stato un teatro della Filarmonica gremito non solo di autorità e docenti, ma di un pubblico variegato con tanti giovani. “Raramente ho visto una città così bella, pulita e calma”, ha commentato la scrittrice, visibilmente commossa. “Ho ricevuto altre lauree honoris causa, ma non ero emozionata come qui, perché sono contornata di amore, di affetto, quasi una famiglia”. Al termine del suo intervento, ha letto alcune delle lettere ricevute dai tantissimi studenti che ha incontrato nelle scuole e una scelta di poesie accompagnata al pianoforte dal maestro Riccardo Joshua Moretti.

Il filo rosso che attraversa e unisce sei decenni della sua attività creativa è la memoria della Shoah, della cui testimonianza Edith Steinschreiber, in arte Edith Bruck, si è addossata il peso e il dovere, come l’amico Primo Levi. “La memoria del trauma insieme storico e privato ha segnato l’esistenza dell’autrice e viene trasferito e rivissuto nel corpo e nei pensieri dei personaggi autobiografici dei suoi romanzi. Deportata ad Auschwitz nella primavera del 1944, insieme ai genitori, a due fratelli e a una delle tre sorelle, a soli tredici anni Edith Bruck si trova faccia a faccia con l’evento nero che ha travolto la vita di sei milioni di ebrei e di cinque milioni fra dissidenti politici, omosessuali, zingari, disabili. Un vissuto indimenticabile, che l’ha resa orfana dei genitori, l’ha privata di un fratello, dell’infanzia, degli affetti familiari, di una casa alla quale far ritorno”, ha spiegato nella laudatio la ricercatrice di critica letteraria e letteratura comparata Michela Meschini, che ha anche curato per le Eum la raccolto di poesie “Versi vissuti”

“Il conferimento della Laurea honoris causa riconosce il profondo valore umanistico e letterario della sua scrittura e il contributo offerto dalle sue opere alle culture di pace e alle esperienze di costruzione del dialogo e di resistenza civile” recitava il dispositivo di conferimento letto dal direttore del Dipartimento di Studi Umanistici Carlo Pongetti. Di Auschwitz non si guarisce, ha raccontato la poetessa, né scrivendo né parlando, ma è un vissuto che va raccontato soprattutto ai giovani, per il loro presente e futuro. E Edith Bruck, ungherese di nascita, lo ha fatto adottando, da adulta, la lingua italiana, da quando è arrivata nel Belpaese nel 1954. “L’italiano per me è la salvezza, la libertà, la corazza che mi protegge dal dolore che suscita la mia lingua natìa. È orfana di genitori, odori, sapori, che evocano i ricordi più dolorosi”.

E sui pericoli dell’oblio: “L’amico-fratello di lager Primo Levi, ferito e depresso per l’ondata di negazionismo, mi aveva detto che non sperava più, non sapeva più scrivere; pochi giorni dopo si uccise – ha proseguito Bruck -. Anch’io penso spesso che non c’è più speranza, che è inutile scrivere, gridare, testimoniare, ammonire le coscienze. Poi mi dico: fai, cammina, parla, racconta, non arrenderti finché c’è e ci sarà un solo lettore, una sola persona in più che abbia capito che ogni uomo ha diritto alla stessa dignità e non ci sono sott’uomini, ma solo sotto ideologie che portano alla barbarie, varrà sempre la pena di scrivere, di ricordare per vivere e di vivere per ricordare”.

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