Il cielo di questa domenica di gennaio è terso. La prospettiva di una camminata in montagna promette orizzonti di luce e vento. Sto percorrendo la variante alla statale 77, e devo prestare attenzione: il fondo è gelato. Niente distrazioni, please. Nel 2018, in provincia di Macerata, gli incidenti stradali hanno causato 22 morti e 1.356 feriti. Lo dice un’indagine ISTAT pubblicata lo scorso novembre. Un incidente su cinque è stato determinato da guida distratta. In altri casi, come testimoniano i gravi fatti di cronaca con i quali si è aperto il nuovo anno, si è trattato di un mix micidiale fatto di stordimento, abuso di alcool, mancato rispetto delle regole di sicurezza. Benché il trend sia in diminuzione, dal 2010 al 2018 i dati riferiti all’intera regione Marche parlano di 2.413 morti e più di 171.000 feriti. Il costo sociale di questa guerra non dichiarata è stimato, per il solo 2018, in 500 milioni di euro.

Neanche questi numeri riescono a dare un’idea di quanto il fenomeno venga sottovalutato, e, più in generale, di come sia distorta la percezione attraverso la quale leggiamo i fatti di cronaca. Perché queste morti non generano allarme sociale? Perché non determinano la stessa angoscia che potrebbe causare una serie prolungata di delitti? Cosa accadrebbe se un numero analogo di morti fosse causato dalla presenza, tra le nostre case, della criminalità organizzata? Duemila e quattrocentotredici uccisioni, pensiamoci bene…

Il fatto è che in questo caso non possiamo alzare il tiro della nostra indignazione, perché sappiamo di recitare contemporaneamente due parti in commedia: potenziale vittima e potenziale carnefice. Non a caso i commenti postati sui social si dividono tra coloro che biasimano il comportamento irresponsabile dei guidatori e coloro che invece tendono ad immedesimarsi nella loro condizione («Uno sbaglio però può capitare a tutti…»).

Mettiamola così: non siamo fatti per guidare. Il nostro cervello non è adatto alla velocità. Abbiamo regalato, ad un io ipertrofico, macchine troppo potenti. Non c’è nulla di naturale nel guidare, non dovremmo dimenticarlo mai. Che percezione abbiamo, del mondo esterno, quando siamo chiusi dentro un abitacolo? Mentre spingiamo sull’acceleratore il campo visivo si distorce: immagini laterali ci corrono incontro, ma non ce ne curiamo. La nostra attenzione è fissa di fronte a noi. La velocità su gomma non costa fatica. Non è necessario avere muscoli buoni o fiato nei polmoni per azzardare un sorpasso. Degli odori e dei suoni esterni sappiamo poco o nulla. Ci fanno compagnia il rumore del motore, quello dei nostri pensieri, e il cigolio degli ammortizzatori mentre percorriamo strade dissestate. Però le sconnessioni più pericolose sono quelle che si formano dentro di noi: a volte inseriamo il pilota automatico, e ci perdiamo, senza accorgercene, nel groviglio di quelle che la tradizione buddista chiama “proliferazioni mentali”. Sentimentali, arrabbiati, semplicemente stanchi. Oppure distratti dalle molteplici identità digitali.

Dovremo dunque attendere la diffusione in larga scala delle auto a guida autonoma per ridurre drasticamente il numero di incidenti?

Nell’universo immaginato da Ian Mc Ewan nel romanzo “Macchine come me”, auto senza conducente vengono progettate per rimediare al comportamento di uomini inaffidabili. L’esperimento però fallisce, di fronte al susseguirsi di colossali ingorghi e alla impossibilità di dirimere complicati dilemmi relativi alle persone da sottrarre alla morte, in caso di incidente, qualora non sia possibile salvare tutti.

Non resta che confidare in noi stessi, cercando di rispettare le regole del gioco: nessuno si illuda di trasformarsi in un cyborg fatto di muscoli e pistoni. Restiamo fragili, umorali: e forse proprio la coscienza dei nostri limiti rappresenta una possibile via di salvezza, per noi e per coloro che ogni giorno incrociamo per strada.

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