Siamo nel mese di marzo, e a giorni si vedranno le mimose nelle strade per ricordare la festa della donna. Alcuni fanno risalire la data di questa celebrazione a un tragico evento accaduto negli Stati Uniti, nel 1857, quando alcune operaie costrette a restare in fabbrica perché non partecipassero a uno sciopero morirono a causa di un incendio. In Italia e altri Paesi si fa riferimento a un 8 marzo del 1911 quando a New York 134 camiciaie persero la vita in un incendio. In realtà non tutti sono concordi a far risalire a un solo fatto la ricorrenza della festa della donna. Il giorno si celebra con la mimosa perché nel 1946 a Roma le donne che organizzarono la festa cercarono un fiore di stagione e a poco prezzo: la mimosa.

Al di là della ricorrenza che forse potrebbe anche diventare una convenzione che nulla ha a che fare con la condizione attuale della donna, basti pensare ai tanti femminicidi (termine che nella lingua italiana esiste solo a partire dal 2001), fa riflettere che per dare dignità alla donna ci si debba ancora ricordare di lei con un giorno particolare. Io lo voglio celebrare con la storia di una donna e auspico che presto non sia più necessario ricordare con una data speciale noi donne, perché il “il genio femminile” è finalmente riconosciuto da tutti come un talento che il Signore ha dato a ognuna in qualsiasi condizione e in qualunque latitudine si trovi.

Ero tornata da lontano. Sapevo che era felicemente sposata e non immaginavo d’incontrarla nella sua città di origine. Avevamo trascorso la prima infanzia insieme, soprattutto le calde giornate d’estate. Arrivava correndo a casa per non perdere le ore di gioco. Ci impegnavamo con una “serietà professionale” a modellare la creta, a cucinare in immaginari fornelli a gas. Poi continuavamo lavando i panni delle nostre bambole nel torrente inesistente vicino casa. Mai un litigio ma tutto con estrema serietà, perché a quell’età il gioco non è solo un passatempo ma un misto di immaginazione, fantasia, divertimento e una maniera di diventare grandi all’improvviso. All’epoca non vi erano tanti giocattoli sofisticati ma anche un pezzetto di legno risvegliava in noi la capacità d’inventare e di divertirsi. All’ora di pranzo poi, prima che scoccasse il mezzogiorno, come una specie di cenerentola, se ne andava via correndo, per non infrangere le regole ferree imposte da una famiglia un po’ troppo rigida con le bambine. Io che non avevo questo tipo di norme da seguire la vedevo scomparire lungo il vialone alberato di ciliegi e aspettavo impaziente il giorno seguente per giocare ancora.

Tra di noi mai una parola di troppo, tutto in perfetta armonia; solo gli scherzi un po’ infantili dei bambini maschi che noi, assorte nel nostro gioco, allontanavamo impazienti. Erano trascorsi tanti anni da quell’epoca e non ci eravamo più frequentate. Solo qualche saluto da lontano e niente più. Ricordo ancora che percorremmo il solito vialone, questa volta non per giocare ma per raccontarci quello che ci era capitato nella vita. Iniziò la sua storia lunga e spezzata. Un matrimonio e poi dopo i primi figli, la rottura non certo da lei voluta ma via obbligata per non vedersi marcire in un ruolo che ormai l’aveva relegata in un angolo. Tradita, abbandonata e disprezzata. Forse sono i tre termini che possono sintetizzare la sua esperienza. Ma quello che più mi colpì fu quel fuggire da una sofferenza troppo grande per proteggere sé stessa e i figli con un solo baule con dentro tutto il suo mondo andato in frantumi.

Aveva fatto una scelta difficile ma anche contro corrente. Crescere i figli senza la presenza paterna, sfidare una società che molto spesso colpevolizza la donna per il fallimento matrimoniale, come se da lei dipendesse la rovina della famiglia. Assumere il ruolo di madre e di padre, quest’ultimo completamente assente nella vita sentimentale dei figli ancora da crescere, educare e proteggere. Un ruolo che sfidava anche la mentalità di un marito che aveva subito lo smacco di una donna che non accetta di essere messa da parte, di non essere vittima di pregiudizi, ma che semplicemente cammina con le proprie gambe, consapevole che ha solo la colpa di essere stata scartata come moglie. Come sempre, ascoltando storie così travagliate di matrimoni andati in fumo, di amori promessi e non mantenuti, mi aggrappo alla mano di quel Dio che ci assicura la sua fedeltà e che ci indica sempre la via della riflessione.

Certo, in un’epoca in cui i vincoli matrimoniali o anche quelli di una semplice convivenza si sciolgono molto spesso come neve al sole, non è questo un’eccezione. In molte omelie ho sentito la cantilena che le unioni non sono più stabili, che il matrimonio è in crisi, che basta un niente e tutto va in frantumi. Non sono un’esperta in materia per fare una riflessione approfondita e teologica, me ne guardo bene. Ma so che “Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo sé stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali.

Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni” (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995). In quella storia ho percepito soltanto tanta sofferenza, tanto dolore. Quando poi ho visitato la sua casa ho visto una foto con due bambini dagli occhi grandi e profondi, lo smarrimento di chi è stato abbandonato. Allora non ho avuto dubbi. Pur non avendo nessuna esperienza, potevo vagliare e sapere qual era il versante giusto per giudicare una vicenda. Giudicare non nel senso di condannare ma di dirimere, differenziare tra chi è vittima e chi è carnefice. Avere chiaro dove è la ragione e il torto, in poche parole da che parte schierarsi. Chi è debole va protetto, non ci sono scusanti e attenuanti. La protezione non è una parola al vento, ma richiede atti concreti. Prendersi cura vuol dire far fronte a tutte le esigenze, da quelle più semplici ed elementari, a discapito dei propri interessi sia essi economici o sentimentali.

Lei in quella storia era colei che si era “presa cura”, aveva difeso quei bambini dagli occhi grandi e interrogativi, ed era stata lasciata sola, contrariamente a quanto ammoniva Giovanni Paolo II: “…nessuna madre deve essere lasciata sola. I figli hanno bisogno della presenza e della cura di entrambi i genitori, i quali realizzano il loro compito educativo innanzitutto mediante l’influsso derivante dal loro comportamento. La qualità del rapporto che si stabilisce tra gli sposi incide profondamente sulla psicologia del figlio e condiziona non poco le relazioni che egli stabilisce con l’ambiente circostante, come anche quelle che intreccerà lungo l’arco della sua esistenza” (Giovanni Paolo II, La donna educatrice di pace, XXVIII Giornata mondiale della Pace, 1995, 6). Ma vi era dell’altro in questa vicenda fin troppo comune al giorno d’oggi: l’esempio di una donna che non si rassegna. Allora ho ricordato i versi di una poetessa argentina che aveva fatto della sua esistenza un grido di ribellione ai tanti stereotipi e preconcetti che ancora permeano la nostra società. Non solo la mia fede mi sosteneva in quella riflessione ma la stessa poesia che è l’essenza del pensiero, anzi è il pensiero che si fa verso e bellezza.

«Potrebbe essere
Potrebbe essere che ciò che nel verso ho sentito
Non fosse altro che ciò che mai ha potuto essere,
Non fosse altro che qualcosa di vietato e represso
Di famiglia in famiglia, di donna in donna.

Dicono che nei solari della mia gente, era indicato
tutto quello che si doveva fare…
Dicono che le donne della mia casa materna
fossero silenziose… Ah, bene poteva essere…

A volte in mia madre spuntarono desideri
di liberarsi, ma le saliva agli occhi
un’onda di amarezza, e nell’oscurità piangeva.

E tutto questo travaglio, vinto, mutilato,
Tutto questo stava racchiuso nella sua anima,
Penso che senza volerlo, io l’ho liberato».

(Alfonsina Storni)

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