In questi sei anni di episcopato tante volte mi è capitato di dire: «Se lo avessi saputo… avrei detto no!». Di fatto poi non ne sono convinto perché, come per il fatto di diventare prete, anche per l’episcopato avevo ben chiaro quali guai mi attendevano. Ho sempre avuto cara una frase di santa Teresa di Lisieux: «Entrando nella vita religiosa, non mi sono mai fatta illusioni».

La condizione di un vescovo, senza falsi eroismi, è simile a quella di un padre con dei figli adolescenti: deve avere ben chiaro che ogni decisione che prenderà potrà essere sbagliata, ma la decisione sicuramente sbagliata sarebbe quella di non decidere.

Di fatto nella realtà di oggi, così complessa perché le connessioni sono a livello mondiale, non è possibile trovare un manuale che indichi infallibilmente le soluzioni. Perciò la costante tentazione è quella di essere: radicalmente conservatori o audacemente progressisti.

In ambedue i casi si cercano soluzioni veloci, guardando al reale con la semplificazione delle foto in bianco e nero. Il reale invece, accolto nella quasi infinita sfumatura dei suoi colori, richiederebbe una tecnica decisionale paziente e complessa di tipo ben diverso: il discernimento.

È questo un termine molto caro a papa Francesco e che possiamo sintetizzare con una formula di san Paolo: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21). Fare discernimento è infatti esaminare tutti i multiformi e spesso contraddittori aspetti della realtà in cui siamo inseriti. Poi con decisione scegliere ciò che è buono, non soltanto “buono per me”, ma buono per tutti, o almeno per il maggior numero possibile: quel bene comune che è l’obiettivo della scelta cristiana.

Evangelii gaudium soprattutto in un mondo globalizzato, ci ricorda il valore dello sguardo ravvicinato ai problemi. La facilità di comunicazione e informazione nel mondo tutto interconnesso, tende infatti a spingere alla centralizzazione di ogni processo decisionale: dovrebbe decidere tutto “il governo centrale”. Sia un tale governo: il parroco, il vescovo, la Cei o il Papa in persona.

Papa Francesco invece lega il buon discernimento alla sinodalità, insegnando che è alle Chiese particolari e ai rispettivi episcopati locali, che compete il «discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori», nella logica di una «salutare “decentralizzazione” » (EG 16).

Tale processo di decentralizzazione, deve comprendere anche una responsabilizzazione maggiore dei fedeli, poiché «come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio» (EG 119) e la Chiesa gerarchica, in cerca di un buon discernimento, non dovrebbe mai sottovalutare l’apporto dei singoli fedeli al suo compito di analisi e decisione. Tutto questo comporta un carico significativo di responsabilità sulle spalle di ogni vescovo, ma anche l’indicazione di un modo di procedere che in vari vescovi stiamo cercando di seguire. La domanda di indicazioni nette e deresponsabilizzanti da parte di alcuni fedeli continua a giungermi, ma debbo riconoscere che il numero di cristiani generosi e maturi, che si impegnano a trovare insieme ai pastori le vie giuste per dare concretezza e solidità alla costruzione del bene comune, è in crescita e non solo tra i giovani.

Anche questo tempo, come ogni tempo di prova, è tempo di maturazione e di crescita nella fede per tutti. Non so dire se almeno io sto davvero crescendo nella fede, ma posso testimoniare che per grazia di questo tempo difficile, sento almeno in me il desiderio della fede, con una intensità mai vissuta in passato.

Che il coronavirus faccia il miracolo di convertire almeno un vescovo? Lasciatemelo sperare.

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