di Alessandro Di Medio

Più volte abbiamo rilevato come in questa Quaresima 2020 liturgia e vita si stiano intrecciando e rispecchiando con un’evidenza e una fecondità ineguagliabili. La Parola e i riti conferiscono a queste nostre giornate un colore profondo e vivido, un significato pieno di speranza, e d’altro canto il tempo della quarantena e della malattia ci sta permettendo di liberare la liturgia dal segmento “religioso” dei nostri schemini, riversandola nella vita concreta, in cui può finalmente incarnarsi.

Ogni giorno la Parola che la liturgia ci dona sembra detta per noi, e se questo vale (dovrebbe valere) sempre, è vero più che mai oggi, perché quando le tenebre si fanno più fitte, è lì che luce del Verbo splende più vitalmente.

Davvero, ogni giorno le letture che ascoltiamo (forse in streaming) nelle Messe di questa Quaresima sembrano scritte or ora per accompagnarci in questo cammino al contempo penoso e catartico.
È il caso, tra i mille, della Parola che abbiamo ricevuto ieri, e che illumina quanto proprio oggi ci accingiamo a vivere come Chiesa, mossi dall’appello del Papa a pregare nuovamente insieme questa sera, dalle 18.
Nella prima lettura di ieri, tratta dal libro dell’Esodo (Es 32, 7-14) Dio si mostra a Mosè come esasperato dall’infedeltà del popolo, e si accinge a sterminarlo: “Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori”. Ah, quanto sarebbero azzeccate queste parole, rivolte al popolo italiano di questi giorni, che si sta scoprendo popolo di corridori, di cinofili, di massaie (quasi sempre stranamente uomini di una certa età) che ogni giorno hanno spesa da fare… un popolo che fa tanta fatica a obbedire all’austerità della quarantena, che scalpita, che inveisce contro le Forze dell’ordine, che fa il furbetto – un popolo che, se dipendesse dal suo modo di rispondere alla crisi, meriterebbe il flagello del contagio in tutta la sua forza devastante.

Eppure, per nostra fortuna Dio non la vede così.

Nel suo dialogo acceso con Mosè, Dio non è arrabbiato, per il semplice fatto che Dio è immutabile nel suo amore. Egli è il Fedele: non è volubile, non subisce variazioni emotive, non è influenzabile e irritabile dalla piccineria dei peccatori. Dio piuttosto provoca Mosè ad assumersi il suo compito, la sua missione di intercessore. Dio pungola Mosè, inducendolo a vedere dove finirebbe il popolo se Dio avesse le stesse strettezze di cuore del popolo, così che Mosè si voti a impetrare misericordia, e in questo atteggiamento di intercessione rimanga per tutta la vita e oltre.

Rispetto a quei pagani travestiti da cristiani (e qualche volta anche da preti) che indentificano questa pandemia con una punizione divina, attribuendo così a Dio le caratteristiche delle divinità pagane, appunto, noi siamo chiamati a raccogliere e a metterci addosso i panni di Mosè e, stando tra l’alterità di Dio che è alieno al peccato e le costanti immaturità del popolo che Lui vorrebbe amare anche quando questo non vuole farsi amare, dobbiamo intercedere.

Intercedere per tutti gli altri, anche e soprattutto quando gli altri non ne sono minimamente capaci.

Dio ci darà la forza di pregare per noi e per tutti gli altri, se accetteremo che questa è la missione che ci deriva dall’essere sin dal Battesimo membra del Corpo dell’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che è la prova vivente e vittoriosa della misericordia di Dio su qualunque presunta giustizia retributiva.

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