Nel centenario della nascita di San Giovanni Paolo II, abbiamo chiesto al vaticanista Luigi Accattoli cosa abbia significato la figura di questo Papa per la Chiesa di oggi.

Secondo Lei, cosa resta dell’eredità del Papa san Giovanni Paolo II?
Resta molto. Ha modificato la figura del Papa avvicinandola all’umanità del nostro tempo e mutandone il segno da capo della Chiesa a predicatore del Vangelo. In nome del Vangelo è andato in tutto il mondo come un nuovo apostolo delle genti, ha predicato la pace, ha chiesto perdono per le colpe storiche dei cristiani.

C’è un aspetto di questa eredità che è tutto suo, che cioè non deve spartire con altri Papi?
Forse il più originale tra i suoi lasciti è stato “l’esame di fine millennio”, che ha portato al “mea culpa” conciliare, un fatto privo di precedenti storici. Il riesame del caso Galileo (1991), lo studio – in appositi simposi internazionali – dell’antigiudaismo (1997) e delle inquisizioni (1998) – la pubblicazione, da parte della Commissione teologica internazionale, del documento La Chiesa e le colpe del passato (2000) rappresentano il coinvolgimento della Curia romana e della Chiesa in generale nel “mea culpa” papale, che culmina con le sette richieste di perdono formulate dal Papa in San Pietro il 12 marzo dell’anno 2000: per i peccati in generale, per quelli commessi nella persecuzione degli eretici, contro l’unità delle Chiese, nei rapporti con gli ebrei, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del genere umano, contro i diritti fondamentali della persona. Ogni persona di buona volontà non può che ringraziarlo di quell’umiltà e di quell’audacia.

Secondo Lei, la sua eredità ha segnato un prima e un dopo nella Chiesa cattolica? E per quale aspetto?
Forse solo per la liberazione dell’immagine papale dai vincoli della tradizione. Egli è stato un Papa che nuota in piscina e va in montagna a sciare, bacia le ragazze in fronte, va in ospedale a fare la tac e a farsi operare, scrive nelle encicliche: «Secondo il mio parere» (Redemptor hominis 4). Un Papa che grida ai giovani: «Chiamatemi Karol!». Che parla per iscritto della sua elezione al Pontificato – che una volta veniva detta, nella lingua della Curia: «Elevazione al Soglio di Pietro» – come di una tappa del proprio curriculum professionale: «In occasione del mio trasferimento a Roma» (nel volume Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994). Potremmo concludere che Karol Wojtyla ha saputo restare se stesso ed è riuscito a non diventare mai del tutto Giovanni Paolo II.

In che senso questa liberazione dell’immagine papale dai vincoli della tradizione segna un punto di non ritorno?
E’ presto per dire che non c’è ritorno. La storia del Papato ha tempi lunghi e chiede lunghe verifiche. Però è vero che i due Papi che sono venuti dopo hanno assecondato quella liberazione. Sia Benedetto, sia – con maggiore evidenza – Francesco. La tradizione degli ultimi seicento anni voleva che i Papi non fruissero del diritto di rinunciare al Papato pur previsto dal diritto canonico e Benedetto vi ha rinunciato. Stabiliva anche che il Papa non pubblicasse testi con opinioni private in materia teologica e Ratzinger da Papa ha pubblicato tre volumi su “Gesù di Nazaret” premettendo che ognuno era libero di “contraddirlo”. Quanto poi a Francesco, quella liberazione è divenuta totale: ha cambiato le vesti, l’abitazione, la gestualità, il linguaggio, il rapporto con i media. Tutto. E forse non avrebbe potuto farlo se prima non ci fosse stato l’uragano Wojtyla.

Secondo Lei, la sua memoria è stata in qualche modo manipolata? Perchè?
Manipolata forse è dire troppo, ma certo abbiamo visto un forte uso della sua immagine che può aver sfiorato l’abuso sia nel bene sia nel male. Il “santo subito” era già un utilizzo intensivo della sua figura, partito certo con le migliori intenzioni all’indomani della morte. Oggi assistiamo all’uso di sue parole e gesti da parte dei sovranisti, sia in Polonia, sia negli Usa, sia in Italia. Ma il fenomeno non è preoccupante: la figura di Papa Wojtyla è forte e resisterà sia alle esaltazioni devozionali, sia alle catture politiche strumentali.

In che senso il grido “santo subito” lo strumentalizzava?
Farlo santo voleva anche dire sacralizzare le sue scelte di governo.

Può fare qualche esempio di cattura politica fuori luogo?
Lungo i primi dodici anni del Pontificato, fino alla caduta del Muro, a sinistra veniva dipinto come un anticomunista viscerale, amico dei dittatori e nemico dei lavoratori. E non era vero. Poi è diventato a destra l’eroe decisivo dell’abbattimento del comunismo. Ed era un credito eccessivo, anch’esso strumentale. Oggi è usato in funzione anti-Bergoglio come patrono delle radici cristiane d’Europa e della resistenza all’Islam. L’evento internazionale che si è tenuto a inizio febbraio a Roma con il titolo «Dio, onore, nazione: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni» segnala l’attualità della tentazione di usare Wojtyla per la propria propaganda.

Perché sarebbero catture fuori luogo?
Perché esaltano un elemento senza intenderlo nell’insieme. Dire che difendeva l’Europa cristiana contro l’Islam e non ricordare le giornate di Assisi, il fatto che chiamava “fratelli” i musulmani, la visita alla Moschea di Damasco vuol dire falsare la storia.

Perché secondo lei lo si usa?
Perché – come dicevo – è una figura forte e tanti cedono alla tentazione di appropriarsene. Se poi la tentazione arriva a contrapporlo al Papa regnante, l’operazione svela appieno la sua caratura.

Ma la lontananza di Bergoglio da Wojtyla non è nei fatti?
No. Diversità sì, lontananza no. Far credere che Bergoglio sia comunista mentre Wojtyla era anticomunista vuol dire portare i Papi in commedia. Qui a Roma è appena arrivato nelle librerie un libro intervista di Francesco con Luigi Maria Epicoco che ha questo titolo: «San Giovanni Paolo Magno» (edizioni San Paolo). Credo basti per negare la lontananza.

Può indicare un difetto di questo Papa già così popolare e ora santo?
Il governo: è stato grande come apostolo ma debole come reggitore dell’ecumene cattolica. Un limite che Papa Wojtyla ha in comune con Papa Bergoglio. Wojtyla delegava il governo alla Curia, Bergoglio non utilizza la Curia nel governo. Delegare è pericoloso ma è un rischiosa anche la scelta di un Papa che voglia fare da solo.

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