di Guendalina Casasole *

Io voglio solo tornare a scuola. Torneremo a settembre, ma come? Dopo la classe capovolta, (che mi fa sempre pensare all’urlo di un ragazzo del primo, che saltava sul banco gridando: «scabordemo tutto!»), giocheremo a classe dimezzata. A tempi alterni, carta che vince, carta che perde. Di stanza ma distanziati, stanziati nelle proprie stanze. I più fragili si perderanno. Sorrido quando sento parlare di nuove tecnologie. Appartengo a quella generazione d’insegnanti che è stata formata alla flipped classroom, al multimediale, e poi è entrata in aule senza il pc per firmare il registro elettronico. Non è solo questione di stanziamenti. Ci sono di mezzo realtà delle quali non si vuole, o non si sa, tenere conto, che vanno dalla formazione dei docenti alle effettive possibilità di fruizione da parte degli studenti. Mi sono abilitata per insegnare latino e italiano nei licei, e ci ho insegnato. Ho scelto di passare a lettere negli istituti professionali. Posso dire che sono mondi diversi, “mestieri” differenti. La scuola italiana tende a plasmarsi sul liceo: la prima prova dell’esame di stato, le Invalsi, sono un esempio evidente.

In tempo di pandemia è partito il tam–tam della “didattica a distanza” come soluzione, e come sbornia. Per me la didattica è relazione, è presenza nello stesso spazio e nello stesso momento. È un tono di voce, una battuta, lo sguardo di quello che si è perso dietro ai suoi pensieri e che devo riportare tra noi. Il Covid–19 ha cambiato le modalità relazionali. Ci si videovede su Whatsapp o su Skype. Le consegne sono caricate online e i compiti scaricati e corretti, per poi essere rispediti. In testa sempre la stessa domanda: «Quando finirà?». In video ci vediamo e ci sentiamo. Male, ma ci sentiamo. Dei miei alunni conosco i bioritmi, quello che carbura dalla seconda ora, quello che alla quinta collassa. Conosci gli odori di ogni classe. Le videolezioni hanno il profumo del mio caffè, e del legno del pianoforte. Il cuore della giornata si riduce alla connessione. Primissimo piano di me medesima. Inguardabile. Meet mi dice che sono sola. «C’è qualcuno?».

Mi sento la particella di sodio in acqua Lete. Aspetto un po’. Esco da Meet, entro in Whatsapp e faccio presente che mi sarei stancata di aspettare. Profluvio di: «Mandi il codice prof… la sento ma non la vedo… la vedo ma non la sento»; qualcuno entra ed esce fugacemente. «Fateme entra’! » e l’altro risponde « Non è ’na porta! »: si ride insieme. Penso a quelli che scaricheranno il materiale dal registro elettronico, perché solo quello possono fare. Quelli che hanno solo il cellulare e mi scrivono: «Prof me sto a fini’ i giga». Quelli che sono a casa, senza rete. Penso che nessuno abbia pensato a loro, ancora una volta. La mattina sfuma nel pomeriggio. Schemi, mappe, riassunti da caricare sulla piattaforma del registro elettronico, scaricare compiti dalla mail, correggere, rispedire. Leggere le chat di Whatsapp: «Prof non ricordo se ho fatto i compiti». «Fatti, non li hai mai fatti in vita tua, ma adesso li fai ogni giorno». Abbiamo tutti bisogno di pensare che finirà: farlo insieme somiglia a una magia, magari succede prima. Poi c’è la questione della valutazione. Nella quale credo poco, pochissimo. Credo che i semi attecchiscano, o muoiano, a prescindere dal nostro stare a misurare la piantina ogni giorno. Fosse per me, passerei il tempo a raccontare e a farmi raccontare le cose che piacciono, che si amano, a farmi fare domande e cercare insieme risposte. La cultura, la crescita, l’acquisizione di competenze, sono vicende dell’uomo: il germoglio spunta. Non lo vedi oggi, non lo vedrai forse neppure tra cinque anni: ma se hai seminato, in qualunque modo, spunta. Mi manca la scuola.

* docente di lettere Ipsia “Corridoni”

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