Di Gianni Borsa

Brescia e Bergamo, città moderne, produttive, “europee”. Dove l’eccellenza è di casa. Eppure sono state le province italiane finora più colpite dalla pandemia da Covid-19. Adesso che i contagi rialzano la testa, si torna ad avere paura… Massimo Tedeschi, giornalista e scrittore, ha raccontato in un libro, “Il grande flagello”, i mesi più drammatici del lockdown, degli ospedali al collasso, dei malati e dei morti. Un volume che ricostruisce, con una grande quantità di testimonianze e dati, “errori, eroismi, lutti, paure e ansia di rinascita”. Al Sir ne racconta la genesi e suggerisce alcune chiavi di lettura del tempo che stiamo attraversando.

All’inizio del lockdown, mentre ci si rende conto di avviarsi verso una tragedia inaspettata, e che si rivelerà devastante, nasce l’idea di raccontare “il grande flagello”. Perché?
Con il direttore di Scholé (marchio dell’Editrice Morcelliana), Ilario Bertoletti, ci siamo resi conto immediatamente che stava avvenendo qualcosa di storico, di inaudito: due delle province più ricche, moderne, organizzate dell’Occidente, dunque del mondo, venivano flagellate da un male dal nome antico, una pestilenza moderna. Da qui è nata la convinzione che andasse costruito in tempo reale un memoriale, un libro che fissasse alcune

notizie che rischiavano di venire travolte dalla “infodemia” di quei giorni, l’epidemia di informazioni che livellava tutto e faceva dimenticare notizie decisive per capire quel che stava accadendo.

Nel libro le fonti citate sono molteplici, le storie raccontate numerosissime, autorevoli le personalità intervistate e soprattutto infinite le cifre fornite. Come ha costruito questo lavoro? Perché l’insistenza sui numeri?
La base è stata rappresentata dai giornali, dal Corriere della Sera e dalle cinque testate quotidiane pubblicate nelle due province di Bergamo e Brescia. Ore e ore di lettura ogni giorno per scandagliare giornali che hanno fatto un lavoro eccezionale, facendo emergere dati che però venivano consumati nello spazio di poche ore. Lì ho costruito il “Diario di bordo di un naufragio” che costituisce la terza parte del libro, ovvero la cronaca giorno per giorno degli avvenimenti che mi sembravano notevoli. Ho dovuto registrare anche la morte di qualche amico, di tanti conoscenti, ma non ho usato il libro per effondere i miei sentimenti che serbo dentro di me.Da lì sono partito alla ricerca di altre fonti: web, siti istituzionali, blog, social. Infine le interviste ai sindaci, ai due vescovi, ad alcune figure eminenti della medicina: le interviste formano la seconda parte del libro. Infine ho scritto quella che è oggi la prima parte del libro, il memoriale vero e proprio: cento pagine ritmate da brevi capitoli che enucleano i temi a mio avviso essenziali per capire cosa è stato Covid-19 in queste terre. Quanto ai numeri, sono la mia fissazione professionale: hanno una solidità, una durezza che non puoi eliminare. E spiegano molte cose.

Brescia e Bergamo hanno, insieme, un Pil superiore ad alcuni Paesi europei di media dimensione. Le due province sono oggettivamente punte di diamante in vari campi, compreso quello sanitario. Eppure sono anche le più colpite dalla pandemia. È riuscito a trovare ragioni plausibili a questa tragica realtà?
Una risposta definitiva non c’è, però nel libro ci sono molti indizi. Queste sono province “globalizzate” come poche altre, sono aperte al mondo per lavoro, affari, viaggi, scambi culturali. Ma avere 47 milioni di passeggeri all’anno negli aeroporti lombardi, in un mondo che ha conosciuto 5 pandemie dall’inizio del secolo, è un problema. È stato un problema non dare eco alle circolari ministeriali che fin da gennaio avvertivano dei pericoli che il virus comportava per il personale sanitario. Un problema avere un piano epidemico regionale che risaliva al 2006 e che già nel 2010 era fallito con l’influenza H1N1 rivelando tutte le lacune che nel 2020 sono esplose:mancanza di numeri certi, di scorte, di piani di riorganizzazione ospedaliera, di rapporti chiari con le Rsa. L’urto della pandemia l’hanno retto gli ospedali, i migliori d’Italia, ma la sanità del territorio da anni non c’era più. La Lombardia, che ha 10 milioni di abitanti, quando scoppia la pandemia si trova ad avere 3 soli laboratori di sanità pubblica. Il Veneto, che di abitanti ne ha la metà, di laboratori ne aveva 12. E così riecco i numeri.

Come ha risposto la società bresciana al coronavirus? Gli intervistati citano momenti di buio ma anche splendidi esempi di solidarietà e dedizione…
Ci sono stati episodi bellissimi: il volontariato, il personale sanitario, gli ospedali che si sono trasformati continuamente. L’Ospedale Civile è la struttura sanitaria italiana che ha accolto più pazienti colpiti dal Coronavirus: 3mila, con un picco di 900 pazienti contemporaneamente. E poi la generosità: l’iniziativa ‘AiutiAMObrescia’, partita per raccogliere pochi milioni, ne ha raccolti 16 in tre settimane. Mancavano i respiratori, e l’idea che i nostri ammalati morissero soffocati ha scatenato una tempesta di generosità.

Brescia oggi: il Covid-19 non è sconfitto. Qual è la situazione in provincia?
La pressione sugli ospedali è ancora sotto controllo. C’è molta apprensione, perché sappiamo cosa vuol dire avere i livelli di occupazione dei reparti di terapia intensiva al 124%, com’è stato in marzo e aprile. Questo comunque è il vero indicatore da monitorare continuamente. Se vanno in crisi le terapie intensive, tutto il sistema sanitario salta.

Secondo lei, quale “eredità” resterà nella sua terra da questa esperienza?
All’inizio c’era una gran voglia di lasciarsi tutto alle spalle. Poi abbiamo capito che non sarà così. Le tante presentazioni del libro “Il grande flagello” che sto facendo in provincia si trasformano in occasioni di riflessione, di testimonianza, di confessioni in pubblico. Il vescovo di Brescia, mons. Antonio Tremolada, ha detto che la pandemia ci ha indotto a ripensare radicalmente alcuni concetti-chiave: corpo, tempo, limite, comunità, ambiente. Ha ragione. C’è un lessico fondamentale da riscrivere, e Brescia ha cominciato a farlo.

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