Quattro giorni consecutivi di chiusura dei centri commerciali, nelle settimane che precedono il Natale, non si erano mai verificati. Nessuno li aveva messi in conto. Nessun investitore, nessun commerciante. L’intero ponte dell’Immacolata cancellato dai Dpcm, come si può leggere nelle locandine affisse in molte vetrine: «In base al Dpcm del 24 ottobre 2020, per evitare assembramenti, l’accesso a questo negozio…», «In vista del nuovo Dpcm del 3/12/2020 il punto vendita riaprirà mercoledì 9 dicembre».

Forse bisogna venire in luoghi come questi, per rendersi conto di quanto a fondo la lotta alla pandemia stia incidendo nelle nostre abitudini. «Benvenuti nel più grande parco commerciale delle Marche – si legge nel sito Internet che nessuno si è curato di aggiornare – «Un ampio mix merceologico. Aperto tutti i giorni dalle nove alle venti. 23.000 metri quadri coperti. 1.200 posti auto.»

Forse qui è possibile comprendere. Attraversare corridoi vuoti, sbattere contro serrande abbassate, osservare gli sguardi vitrei dei manichini nudi e dei pochi attoniti che si aggirano per i negozi. Colpiti al cuore. Consumatori in frantumi. È accaduto quello che si era riuscito ad evitare perfino nella stagione degli attentati efferati (ricordate la presunzione degli uomini di governo occidentali? «Nessuno riuscirà a cambiare il nostro modo di vivere, continueremo la vita di sempre!»). Stavolta l’ingranaggio si è inceppato davvero.

Alle 18 di lunedì pomeriggio gli altoparlanti diffondono musica. Le luminarie sono accese. Dal piano superiore, che domina il parcheggio, si vede una fila di macchine entrare nell’area del centro commerciale. Molti si rendono conto che i negozi sono chiusi, tornano indietro. Qualcuno invece si ferma. Scende dall’auto, indossa la mascherina. Si dirige verso una delle poche vetrine illuminate, finalmente si accorge che c’è qualcosa di strano. Si guarda intorno, come una formica che si muove a tentoni cercando la fila delle compagne; poi risale in macchina, e riparte tuffandosi nel buio della periferia. Due uomini sono seduti all’esterno di un bar, nella semioscurità. Sui loro visi si riflette la luce dello schermo del tablet che il più giovane sta mostrando all’altro. L’atmosfera è irreale, le scale mobili continuano a scendere e a salire senza trasportare nessuno.

Resta da chiedersi dove si diriga il flusso delle auto in uscita: qualcuno tornerà a casa a mani vuote, i più ostinati continueranno a cercare negozi aperti in città. Altri, forse, troveranno il tempo per chiedersi se sono davvero da rimpiangere gli assembramenti asfissianti, le file interminabili, gli acquisti compulsivi. Qualcuno intuirà di far parte di un tempo tutto al contrario, dove si rischia di perdere il lavoro non per mancanza di acquirenti, ma per il pericolo di un eccessivo affollamento. E magari inizierà a chiedersi se non sia preferibile un modello di sviluppo differente, più sostenibile, alternativo rispetto alle grandi concentrazioni di capitali, merci e persone.

I parchi commerciali e il mondo che essi rappresentano faranno la fine dei dinosauri? Sarà la storia a dirci se stiamo assistendo all’inizio della grande estinzione, o solo ad una memorabile battuta d’arresto.

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