Si avvicina la festa dell’Epifania. In occidente, questa ricorrenza, purtroppo, è destinata ad essere la chiusa del tempo di Natale e perciò è di frequente vissuta con un po’ di tristezza e distrazione a causa di un tran tran quotidiano che riprende sempre troppo in fretta. Eppure l’Epifania, raccontando la ricerca di un re da parte di alcuni sapienti, custodisce un grande messaggio politico che potrebbe trasfigurare proprio quella routine giornaliera che tanto ci preoccupa.

Il Vangelo consegna alla narrazione dell’adorazione dei Magi l’annuncio di un’inedita forza che purifica ogni idea di potere che l’umanità ha prodotto: la forza divina racchiusa nelle tenere carni di un neonato diviene visibile ed adorabile. La forza del Dio-bambino, così lontana dalla potenza mostrata dai potenti, così incompatibile con l’immagine del dio che ci guarda dall’alto in basso, si è resa riconoscibile! Il Dio vero, per chi come i Magi sa scrutare il cielo nel silenzio della notte e meditare le Scritture nella fatica del cammino di ogni giorno, può essere trovato e lo splendore della sua forza attrattiva può riflettersi nei volti degli uomini. L’Epifania celebra la speranza di chi attende il regno del buon governo, un re capace di un potere buono.

Già i pastori nella notte di Natale avevano visto e riconosciuto il Dio-bambino;  dunque, che cosa aggiunge l’Epifania al Natale? I Magi vengono dall’Oriente e non sono giudei, perciò è implicito un richiamo alla riunificazione dell’umanità dispersa dopo Babele. Non sono tre, ma, come scritto nel vangelo di Matteo, “alcuni”; tuttavia, la tradizione, al di là del numero, ha colto l’essenza della questione quando li ha presentati con colori della pelle differenti. Pur nella diversità delle provenienze ci si scopre vicini e accomunati dalla medesima speranza: trovare il Salvatore, colui che può riscattarci dall’infelicità cui ci costringe la paura di rimanere soli, inascoltati, senza cibo o casa o lavoro, soli senza nessuno con cui ridere o piangere. L’Epifania è la gioia della fraternità.

Spesso parliamo di amore fraterno come di un amore “facile”, esemplare ed è così che “amarsi come fratelli” diventa il paradigma dell’amore spontaneo, normale o naturale. Eppure, senza scomodare la Bibbia con le figure di Caino ed Abele, Isacco ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, basta guardarci intorno per vedere come avere in comune il sangue non basta ad amarci come figli della stessa madre e dello stesso padre: le contese per le eredità, note anche a Gesù che le richiama nelle parabole,  non sono che la punta di un iceberg. I fratelli e le sorelle di sangue sono esposti, prima ancora che all’avidità, all’invidia.

Più siamo simili e più la tentazione dell’invidia è forte: posso tranquillamente accettare che un americano diventi un magnate della new economy o il presidente degli Stati Uniti, ma è inaccettabile che mio fratello, con il quale ho condiviso genitori, casa, tempo e che persino mi assomiglia nel volto, sia più ricco o più bello, abbia più riconoscimento sociale, più opportunità di me. Dio ha accolto l’offerte di Abele e non quella di Caino, ma il libro della Genesi non ci dice che quella del secondo era meno apprezzabile di quella del primo; Caino non può accettare questa disparità ingiusta e prova invidia per Abele. In-vidia: non poter vedere che chi ha il mio stesso sangue goda di maggior favore di me! Anche Erode non può vedere che dei Magi siano venuti da tanto lontano ma non per lui. Anzi, il testo biblico dice di più: è tutta la città di Gerusalemme che non può tollerare che un minuscolo paese come Betlemme dia i natali ad un re. L’in-vidia, purtroppo, non infetta solo i singoli, ma anche intere comunità.

Abbiamo bisogno di trovare un Dio-bambino che purifichi la nostra esperienza di forza e di potenza: se Dio, incarnandosi, trova il suo rifugio nelle braccia di Maria e il suo vigore in quelle di Giuseppe e poi, dopo l’ignominia della croce e la gloria della resurrezione, affida la forza rigenerante del Vangelo a degli uomini ai quali chiede di amarsi gli uni gli altri come lui ha fatto, allora si può pensare ad un potere che è tanto più forte quanto più è condiviso e partecipato e questo è l’avvento della fraternità. Sperimentare la solidarietà della forza degli altri e sentire la propria forza investita dalla responsabilità per gli altri è fraternità e sororità universale, è la risposta alle attese del buon governo. Fratelli tutti!

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