di Ugo Bellesi

Ci troviamo di nuovo in piena pandemia, con il solo conforto che è stata avviata la vaccinazione antivirus, e quindi il nostro stato d’animo è in piena sintonia con il periodo di Quaresima che stiamo vivendo. Comunque l’astinenza e il digiuno in vigore in epoca moderna sono ben lontani dalla realtà vissuta dai nostri avi. Che tra l’altro dovevano rispettare precetti molto meno rigidi di quelli osservati da chi apparteneva agli ordini religiosi. Basterà ricordare che la Regola di S.Agostino prescriveva: «Domate la vostra carne con digiuni e con astinenza dal cibo e dalle bevande, secondo quanto lo consentono le vostre forze». In altri termini il digiuno significava «rinuncia ad una parte della razione quotidiana e sicuramene la rinuncia totale alla carne». Nella sostanza il “digiuno stretto” significava un solo pasto al giorno.

Ma arrivati alla domenica delle Palme, che dava il via alla Settimana santa, già si contavano i giorni dalla fine della Quaresima. Va ricordato che in questa settimana, per antica tradizione, non si potevano cantare canzoni profane mentre continuava il digiuno strettissimo. Unica eccezione consentita era il Giovedì santo, quando, dopo la visita ai sepolcri, i contadini al mattino e gli artigiani al pomeriggio si riunivano per mangiare (in ricordo dell’ultima cena di Gesù) esclusivamente sardelle o stoccafisso. In tutti i paesi, quando si “legavano le campane”, si fermavano anche le lancette dei pubblici orologi. Il Venerdì santo i chierichetti suonavano le gnacchere (tavolette di legno con due o più battenti di ferro) per le vie dei centri urbani per annunciare la predica delle “Tre ore” e la “processione del Cristo morto”. Il Sabato santo si “scioglievano le campane” per annunciare la Resurrezione e si dava il via alla celebrazione delle Messe solenni in cui tutti adempivano al precetto di «comunicarsi almeno a Pasqua».

Ma era quello anche il giorno in cui cessavano astinenze e digiuni tanto che la festa continuava fino a martedì dopo Pasqua, dando il via anche alle scampagnate fuori città.

E parlando della Pasqua non possiamo non ricordare la lettera che Giacomo Leopardi, vivendo lontano da Recanati, inviò in questa ricorrenza alla sorella Paolina, scrivendo tra l’altro: «Salutami il curato e don Vincenzo, e dà loro, a mio nome, la buona Pasqua, che io passerò senza uovi tosti, senza crescia, senza un segno di solennità». In altra lettera, inviata da Pisa al fratello Pierfrancesco, il poeta esalta la bontà delle locali “stiacciate” o “schiacciate” scrivendo tra l’altro «Se provaste le schiacciate che si usano qui per Pasqua, son certo che vi piacerebbero più che la crescia; io ne manderei una per posta a Paolina (perché è roba che ci entra il zucchero), ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per posta anche il forno”. E più avanti (riferendosi al gioco della “scoccetta” in cui si gareggia sbattendo l’una contro l’altra le uova sode) aggiunge: «A proposito di Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno: mangiatele senza farle patire, e non sieno tante. Io non mangerò né uova toste, né altre… passo le 48 ore con una zuppa!».

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