Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa.

Preghiamo i salmi con S. Giovanni Paolo II

CANTICO DI EZECHIA (IS 38, 10.12B.17B.19)
Io dicevo: «A metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi; sono privato del resto dei miei anni». La mia tenda è stata divelta e gettata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi recidi dall’ordito. In un giorno e una notte mi conduci alla fine». Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati. Il vivente, il vivente ti rende grazie come io oggi faccio. Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà.

Il re Ezechia, un sovrano giusto e amico del profeta Isaia, era stato colpito da una grave malattia, che il profeta Isaia aveva dichiarato mortale. Ma alla preghiera accorata del re il Signore risponde donando la guarigione. È a questo punto che sgorga dal cuore del Re il cantico di riconoscenza. Ezechia ricorda innanzitutto le parole piene di amarezza pronunziate quando la sua vita stava scivolando verso la frontiera della morte: “Non vedrò più il Signore nella terra dei viventi”. Invece, liberato dal pericolo di morte, Ezechia può ribadire con forza e con gioia: “Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi”. Il Cantico di Ezechia proprio su questo tema acquista una nuova tonalità, se letto alla luce della Pasqua. Soprattutto con la morte e la risurrezione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, un seme di eternità è deposto e fatto germogliare nella nostra caducità mortale, per cui possiamo ripetere le parole dell’Apostolo, fondate sull’Antico Testamento: “Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»” (1Cor 15, 54-55). Il canto del re Ezechia, però, ci invita anche a riflettere sulla nostra fragilità di creature. Le immagini sono suggestive. La vita umana è descritta con il simbolo nomadico della tenda: noi siamo sempre pellegrini e ospiti sulla terra. Si ricorre anche all’immagine della tela, che viene tessuta e che può rimanere incompleta quando si taglia il filo e il lavoro viene interrotto.

Una storia per pensare…
Il piccolo e zoppo Giovanni e Tommaso erano arrivati all’istituto per bambini senza famiglia lo stesso giorno, pochi mesi dopo la nascita. Le volontarie erano molto buone con loro, un po’ meno i bambini della scuola pubblica che frequentavano. Erano crudeli spesso con il timido Giovanni, ma Tommaso sapeva metterli a posto, perché era un bambino robusto e intelligente: il più bravo a scuola e il più svelto in cortile. Era Tommaso che aiutava Giovanni, gli stava sempre vicino. All’istituto venivano spesso le coppie che facevano conoscenza con i bambini e li portavano fuori a mangiare in vista di una possibile adozione. Nessuno si interessava a Giovanni e Tommaso inventava sempre una scusa o si metteva a fare mattane per non uscire. Lo aveva fatto solo due volte, con il dottor Turrini e sua moglie Anna. Una domenica, il dottor Turrini chiamò Tommaso e lo guardò negli occhi: “Sei un bambino veramente in gamba! Ti piacerebbe venire a vivere con noi? Saresti in affidamento per un po’, ma noi ti vorremmo adottare. Come un vero figlio. Che ne dici?”. Tommaso rimase senza parole. Avere una mamma e un papà, come tutti! Ma improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Tommaso se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Giovanni? “Io… vi ringrazio tanto, signore” disse. “Ma non posso venire, signore!”. E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime, corse via. Poco dopo, il dottore lo venne a cercare con una delle volontarie. Tommaso stava aiutando Giovanni a infilarsi la scarpa speciale. Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Tommaso: “È per lui che non hai voluto venire a stare con noi, figliolo?”. “Beh, sì…” disse sottovoce Tommaso, “io… io sono tutto quello che lui ha…” rispose il bambino.

La voce di un teologo
Fuggire ogni prova significa fuggire ogni responsabilità e rifiutare ogni vocazione.

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