Papa Braschi, dopo una brillante carriera nei quadri della burocrazia curiale, era stato eletto Papa nel 1775 con l’appoggio della diplomazia francese. Aveva inaugurato il suo pontificato con la celebrazione dell’Anno Santo. Il suo governo si distinse per i progetti di riassetto economico e commerciale del lo Stato con vari tentativi di riforma finanziaria, catastale, legislativa e giudiziaria. Tra i programmi attuati va ricordata la bonifica delle paludi dell’Agro romano, da lui stesso patrocinata nell’intento di creare nuovi spazi e nuovi stimoli per lo sviluppo dell’agricoltura. Il frenetico susseguirsi degli avvenimenti, soprattutto in seguito alla rivoluzione del 1789, lo colse impreparato e lo travolse.

I rapporti del Papa col Direttorio di Parigi divennero tesi sopraflutto dopo la discesa delle truppe francesi in Italia. Nel 1796, con l’armistizio di Bologna, Pio VI si vide costretto a riconoscere la Repubblica Francese. Un tentativo del Papa di sottrarsi all’egemonia dei vincitori portò alle dure condizioni imposte dalla pace di Tolentino del 1797. I successivi fatti di Roma provocarono l’occupazione militare dello Stato della Chiesa e la proclamazione della repubblica romana. Il Papa fu deposto come sovrano temporale e condotto prigioniero in Toscana, da dove, attraverso Panna, Torino e Briançon, raggiunse Yalence, nel Delfinato, e lì, sempre in stato di arresto, morì nell’agosto del 1799. La salma fece ritorno a Roma nel 1801.

Anche la Città di Treia è da sempre legata a questo Pontefice tanto da dedicargli il più importante monumento che fa da contorno all’armonica piazza cittadina. La riconoscenza dei treiesi a Papa Braschi rimanda a tre fatti importantissimi che hanno segnato la storia locale:

L’appoggio e la condivisione della trasformazione dell’antica Accademia dei Sollevati di Montecchio in Accademia Georgica e l’istituzione delle Case di Correzione e Lavoro.

Nonostante i travagli politici che occuparono fin dall’inizio il pontificato, non furono trascurati alcuni primi provvedimenti per l’incremento delle attività produttive con particolari attenzioni dell’agricoltura. In tal senso va visto l’appoggio dato dal Papa, nel 1778, alla trasformazione dell’antica Accademia dei Sollevati di Montecchio, in Accademia Georgica, con obbiettivi miranti allo sviluppo degli studi economici per il rinnovamento del settore agricolo.

Così Montecchio ebbe l’onore di ospitare tra le sue mura la prima istituzione di tal genere dello Stato Pontificio.

L’Accademia Georgica svolse una intensa attività di ricerca e di sperimentazione, con buoni risultati che la resero famosa in tutta Europa. Pio VI seguì sempre con molta attenzione il progredire scientifico degli studi accademici accordando i mezzi e gli strumenti necessari per le attività sperimentali. Nel contesto di una politica tesa al rilancio delle manifatture dello Stato pontificio va anche inquadrato uno dei primi tentativi di industrializzazione dello Stato stesso con la realizzazione a Montecchio delle Case di Correzione e Lavoro. Il progetto maturò nell’ambito di un gruppo di nobili locali legati all’Accademia Georgica e aperti alle idee illuministiche. Costoro predisposero un programma per la formazione professionale dei giovani e nel contempo per lo sviluppo dell’industria e del commercio. Il 15 novembre del 1781 il Papa approvò il programma presentatogli dagli accademici Benigni e Riccomanni in cui si prevedeva l’istituzione a Montecchio di un reclusorio dove i giovani detenuti sarebbero stati impiegati in attività di tipo industriale.

Il principio ideologico che governava l’ideazione e la realizzazione dei due stabilimenti è figlio di una identica concezione dell’ordine pubblico e del ruolo dello Stato nel controllo delle devianze e della marginalità. Il fondamento teoretico in base al quale il lavoro nobilità l’uomo e lo redime, si sposa con il principio utilitaristico che non trova nulla di moralmente ineccepibile nello sfruttamento del lavoro coatto a basso costo. Pertanto la disponibilità del Papa permise il sorgere a Montecchio nel 1782 di una scuola di filatura a cui fu aggiunta nel 1784 una scuola di tessitura. Il progetto di reclusorio trovò attuazione solo nel 1797.

Lo scopo degli accademici era quello di tentare, per la prima volta nello Stato pontificio, la produzione di manufatti di lusso in grado di competere con quelli stranieri. Il tentativo non ebbe l’atteso successo e rimase allo stato di piccolo opificio senza la forza di tramutarsi in una grande fabbrica moderna. L’unico elemento di successo fu rappresentato dalla straordinaria qualità del prodotto consistente soprattutto in merletti e filati di gran pregio.
In segno di riconoscenza per l’apertura delle Pie Case di Correzione e Lavoro, le autorità di Montecchio deliberarono di erigere nella piazza principale un tempietto, sostenuto da colonne di travertino, destinato a contenere un busto di Pio VI, modellato dallo scultore romano Tommaso Righi e fuso in bronzo dal montecchiese Antonio Calamanti.

Il monumento fu inaugurato la sera del 20 novembre del 1785 con manifestazioni solenni accompagnate da “fuochi artificiali e banda de’ sonatori”. La “Relazione delle pubbliche feste celebrate… in onore della Santità di Papa Pio Sesto” conservata nell’achivio dell’Accademia descrive i palazzi della piazza completamente illuminati a cera, la balaustra circondata da soldati e munita di un gran numero di fiaccole accese, e mentre la folla inneggiava al grido di “viva il Santo Padre” nell’aria risuonava il giubilo di tutte le campane e degli strumenti musicali, nonché di spari di mortari. I festeggiamenti durarono per ben tre giorni.

Furono composti diversi sonetti alla santità di Pio VI e la riconoscenza per l’apertura delle Pie Case di Lavoro (localizzate presso l’odierno ospedale cittadino) e quelle di Correzione (edificio, oggi demolito, ubicato nelle immediate vicinanze e di fronte al nosocomio) fu immortalata nel 1785 anche grazie al conio di una serie di medaglie pontificie commemoriative che raffiguravano sul rovescio proprio l’edificio del reclusorio contornato dalla scritta “Morib. Castigand. Jvvandis Artib Trejenses – Ex. Avctorit. O.P.” e il profilo di Pio VI con berrettino, mozzetta e stola sul lato dritto (autore Ferdinando Hamerani). I progetti architettonici delle due Case furono affidati ad Andrea Vici e risultano particolarmente preziosi per poter documentare visivamente soprattutto la casa di Correzione che, come si è detto, è stata demolita.

L’Accademia Georgica treiese che sin dalla sua istituzione nell’anno 1778, ha sempre sostento l’innovazione tecnologica e sociale in particolare a suo tempo nel campo agricolo promuovendo e sostenendo ricerche, studi e innovazioni tendenti a modificare nel tempo le condizioni sociali dei treiesi, anche oggi con tutte le difficoltà, anche economiche, del momento ha avviato un serie di progetti tendenti alla maggiore fruibilità del patrimonio culturale posseduto e conservato attraverso sistemi innovativi e attuali consentendo altresì la messa in sicurezza degli stessi anche da eventi calamitosi.

La bolla “Emixum animi nostri stadium” con cui nell’anno 1790 eresse Montecchio al rango di “Città” restituendo l’antico nome di Treja.

Il più atteso privilegio che il Papa potesse concedere ai Montecchiesi era il ripristino del grado di Città e la restituzione dell’antico nome di Treja. Ciò avvenne con l’emanazione della bolla Emixum animi nostri stadium del 2 luglio 1790 in cui il Papa ricordava la gloriosa terra di Montecchio dove nel IX secolo si erano rifugiati i Trejesi sfuggiti al furore dei barbari, terra cresciuta nel corso dei secoli tanto da essere considerata una delle più importanti del Piceno.

Il Comune aveva raggiunto un buon numero di abitanti, più di settemila unità, il centro abitato si era rinnovato e vantava splendidi edifici pubblici e privati. La fertilità dei suoli e l’operosità dei coloni, la vastità del territorio e la presenza di una illustre e ricca classe nobiliare, erano ulteriori motivi giustificanti la riqualificazione di Montecchio alla pari delle altre città picene. Nella bolla il papa dava il giusto risalto anche alla religiosità della popolazione espressa nella presenza di numerose ed insigni chiese, di sette parrocchie, delle quali tre urbane e quattro nelle campagne, di conventi e di monasteri, di opere pie e di istituzioni create per l’istruzione, il commercio e la cultura.

Alla pubblicazione del documento, oggi conservato presso l’Accademia Georgica, fu data grande rilevanza perché ritenuto subito significativo segno di riconoscimento dei progressi realizzati fino a quel momento. E così, da allora in poi, coloro che si sono interessati di patrie memorie hanno individuato in quell’occasione una importante tappa foriera di orizzonti nuovi per il futuro della comunità locale. L’evento fu festeggiato con solennità e per ricordare l’avvenimento le autorità locali decisero la coniazione di una medaglia che raffigurava da un lato l’immagine del Papa in mozzetta e stola, mentre nel rovescio la figura di una donna col capo turrito e col corno dell’abbondanza, simboleggiante Treia genuflessa al cospetto del pontefice, il quale, in piviale e triregno, le porgeva la mano destra per aiutarla a risollevarsi; il tutto contornato dalla scritta “Trejenses Restitutori Municipii MDCCXC” (incisore Gioacchino Hamerani).

I treiesi ricorderanno anche le celebrazioni del secondo centenario avvenuto nel 1990. Per l’occasione l’Amministrazione Comunale ha fatto coniare delle medaglie commemorative in oro, argento e bronzo, oggi dei preziosi oggetti da collezione, il cui conio è stato realizzato dall’incisore Wulman Ricottini riutilizzando l’antico conio settecentesco custodito dall’Accademia Georgica.

La beatificazione del Beato Pietro di Treia.

Avendo nel tempo operato vari miracoli, il Beato Pietro da Treia fu sempre circondato di venerazione, onorato e amato per quell’alone di santità che da lui promanava, finché il 31 agosto 1793 il Pio VI confermò il culto e il titolo di Beato, e concesse l’Ufficio e la Messa propri in suo onore. Il Beato Pietro nacque a Treia, allora Montecchio intorno all’anno 1230 discendendo della nobile famiglia Marchionni (De Marchionibus) resa insigne per fama di dottrina e per gloria di armi. Colpito dai meravigliosi esempi e più ancora dal divino fascino di San Francesco, giovanissimo entrò nell’Ordine Francescano dei Frati Minori desideroso di imitarne le virtù anche se non ebbe la fortuna di conoscere personalmente il Santo di Assisi ma sentì aleggiare nel suo paese e nella sua giovinezza quel profumo, quel fascino irresistibile che lo portò a seguirne materialmente le orme. Una volta divenuto Frate Minore, il Beato Pietro si diede alla predicazione del Vangelo nella sua città natale: e fu uno di quegli araldi della Parola di Dio che non lascia indifferenti, che trasforma le situazioni e che cambia il cuore.

Fu poi trasferito nel Convento antico di S. Francesco ad Alto, ad Ancona, fondato da S. Francesco nel 1219, in occasione del suo ritorno dalla visita ai luoghi santi della terra del Signore. Nella Chiesa del Convento di Ancona il Beato Pietro ebbe, secondo il racconto dei Fioretti, l’estasi del Crocifisso: fu visto, infatti, “elevato da terra cinque o sei braccia (ossia 2 metri e mezzo) insino appiè del Crocifisso della chiesa, dinanzi al quale stava in orazione” (Fioretti, cap. 42). Qui il Beato Pietro conobbe e visse insieme al Beato Corrado da Offida (1241-1306), col quale si legò con vincolo di speciale amicizia.

Da qui il Beato Pietro, insieme al Beato Corrado da Offida, fu mandato nel luogo di Sirolo (AN), dove il Beato Corrado guarì una povera donna, pregando per lei tutta la notte e liberandola, così, dal demonio e dove il Beato Pietro ebbe la visione di San Michele Arcangelo, il quale in segno di gratitudine per la Quaresima che il Beato praticava in preparazione della sua festa del 29 settembre, gli procurò la grazia dell’esperienza impareggiabile della certezza del perdono dei peccati.

Dal luogo di Sirolo i due santi frati andarono in quello di Forano nel Comune di Appignano (MC), anch’esso visitato da San Francesco nel 1215, essendo ospizio e chiesa dei monaci cistercensi della vicina abbazia di Fiastra: il luogo era circondato da una bella selva, per cui ci si poteva dedicare abbondantemente alla preghiera nel silenzio e nella discrezione. Qui entrambi ebbero visioni celestiali, dedicandosi con lo spirito tipico dei figli del Poverello alla meditazione della Parola di Dio e dei misteri fondamentali della salvezza, ossia l’umiltà dell’incarnazione e l’amore e la sofferenza della Croce.

Dopo varie esperienze legate alle vicende della Chiesa e dell’Ordine del tempo, il Beato Pietro ritornò al Convento di Sirolo, dove il 19 febbraio 1304 concluse la sua esperienza mortale. “Stella lucente e uomo celestiale”, come lo chiamano i Fioretti, il Beato Pietro era ritenuto santo, già nella sua vita terrena.

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