Proponiamo un estratto dell’in- tervento svolto dal vescovo il 1° luglio, su invito dell’associazione di cultura politica “La Tenda”, a un incontro che ha avuto luogo alla Domus San Giuliano aperto a politici, amministratori locali e persone interessate alla politica.


Viviamo in un mondo di idee e opinioni sovrapposte, confuse, spesso gridate. Questo porta spesso, anche “in casa nostra”, a scontri e contrapposizioni distruttive. Quando la pancia domina sulla testa e il grido prevale sull’argomentazione, siamo agli antipodi dello stile di confronto tra cristiani che la Fides et ratio auspica. Provo qui a chiarire il ruolo e la responsabilità del vescovo e della Chiesa locale rispetto all’azione politica.

Il vescovo come l’abate benedettino è scelto, non autoproclamato. È primariamente l’uomo del duplice ascolto: del Signore che ci guida attraverso la sua Parola, e della Comunità, per giungere ad una sintesi.

È un compito impegnativo, che indica una autorità chiara, ma non assoluta e in alcun modo assimilabile a certo leaderismo politico. In questo quadro vi è un piano della Dottrina sociale della Chiesa, cioè del Magistero, che impone al vescovo di testimoniare con chiarezza i grandi valori su cui si basa la convivenza umana, che cerca il bene comune e l’armonia sociale. Pio XII definiva il bene comune come «le condizioni esterne necessarie all’insieme dei cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa». Un principio che offre direttive che si incarnano in scelte economiche concrete. Esemplare al riguardo il “Codice di Camaldoli” (testo redatto nel luglio 1943 da un gruppo di intellettuali cattolici che già pensavano all’Italia post–bellica, ndr) con i suoi 8 principi regolatori dell’economia: la dignità della persona, l’eguaglianza dei diritti personali, la solidarietà, la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini, la possibilità di appropriazione dei beni nei modi legittimi fra i quali è preminente il lavoro, il libero commercio, la giusta remunerazione del lavoro, la possibilità di intervento dello Stato. Sempre il Codice di Camaldoli definisce l’armonia sociale come: «l’esito dell’interazione di diversi fattori, il primo dei quali è la giustizia sociale». Lo Stato deve puntare a garantire a ogni cittadino un la- voro, vigilando sul libero mercato che non è automaticamente sempre buono. Corollario dell’armonia sociale è «il dovere dell’obbedienza allo Stato, inteso come primo e fondamentale garante dell’ordine pubblico».

Dai due principi, bene comune e armonia sociale, si possono dettagliare una serie di valori fonda- mentali che rintracciamo già nel Decalogo di Mosè, sintesi del sistema valoriale della cultura latino–giudeo–cristiana, su cui si radica come memoria fondativa la nostra identità nazionale:

«Non uccidere» – il valore della vita umana, da cui deriva l’impegno a evitare la guerra, la pena di morte, l’aborto, l’eutanasia, la segregazione razziale, la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento dei poveri e dei deboli, la violenza.

«Onora il padre e la madre e non commettere adulterio» – Il valore della famiglia, come prima cellula della società generatrice di vita e di futuro, da tutelare, favorire, anteporre in dignità e tutte le strutture sociali e politiche secondarie, quale è lo Stato.

«Ricordati di santificare le feste» – Il valore del lavoro e del riposo, come diritto–dovere primario della persona, che fonda la sua dignità e permette la vera promozione umana. Ne deriva la tutela di una giusta retribuzione, la sanità dei luoghi e dei processi lavorativi, la tutela previdenziale e quella assistenziale in caso di disoccupazione… A questo si connette il valore del riposo e del divertimento, assieme alla promozione della socializzazione e del confronto di idee, possibili solo se la gestione dei tempi del riposo è volta a far incontrare le persone e non a isolarle sul divano di casa.

«Non rubare e non sequestrare le persone» – Il valore della liberà personale, sempre intesa nel quadro del bene comune. Ciò comporta l’impegno comune per la partecipazione alla conduzione politica della società. A questo valore si collega la libertà religiosa.

«Non dire il falso» – Il valore della verità nella comunicazione, perché l’opinione pubblica si costruisca liberamente secondo il discernimento saggio e l’esperienza delle persone, con massmedia e produzione culturale e di svago che tutelino i minori e le persone culturalmente meno attrezzate contro plagio e strumentalizzazione.

Nel concreto tale libertà si tutela dal basso, sostenendo e favorendo le voci del territorio (radio, Tv, giornali sia stampati che online) rispetto ai grandi network. La miglior difesa della verità è legata alla diffusione della conoscenza e alla crescita culturale della popolazione. Il vescovo deve annunciare i valori, i quali, come ha ribadito papa Francesco, in sé non sono mai negoziabili. È solo “negoziabile” la modalità concreta di tutelare e promuovere ogni valore. Quando il vescovo e la comunità cristiana annunciano questi valori, declinandone l’attuazione nella vita della società, non compiono una indebita “invasione” dell’ambito laico. È laicismo deteriore e non laicità distinguere nell’uomo l’ambito del- le convinzioni e desideri interiori, tra cui la fede, da quello dell’azione esteriore e pubblica.

Il secondo piano della responsabilità del vescovo è quello della sollecitudine pastorale per il bene comune e l’armonia sociale del popolo a lui affidato. Nel concreto di scelte parziali e storiche – economiche, amministrative, educative e anche genericamente politiche – è bene che il vescovo condivida il suo pensiero con i collaboratori e con i credenti, offrendolo come contributo di riflessione anche a tutti gli “uomini di buona volontà”. Queste valutazioni di scelte concrete non hanno però il valore e l’autorevolezza del Magistero sulla Dottrina sociale.

Proponendole, il vescovo si pone al livello del dibattito pubblico e del confronto sereno, che non solo tollera la contestazione o la proposta diversa, ma la considera un valore, purché il clima sia di vero confronto e di collaborazione di tutti alla ricerca del bene comune e dell’armonia sociale. Per questo quando il Vescovo entra nell’ambito del dibattito non compie un’ingerenza: è suo compito di pastore e maestro aiutare a comprendere come la visione di fede si possa incarnare in situazioni concrete. Da parte sua tale azione chiama necessariamente i laici cristiani a un coinvolgimento responsabile. Questo attua un modus operandi sanamente laico e né laicista, né clericale.

Nel concreto il vescovo propone temi di riflessione e letture della situazione sociopolitica a quanti sono interessati, in maniera trasparente e pubblica. Il laicato ecclesiale è invitato a rispondere con libertà e responsabilità, soprattutto a partire dalle proprie competenze. Sta infine al vescovo cercare di offrire una sintesi saggia che possa es- sere riproposta a tutta la comunità credente. Questo stile potrebbe anche essere definito con una parola oggi di moda: sinodale.

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