Forse non è esagerato affermare che l’esperienza maturata nei venti mesi di servizio civile prestato come obiettore di coscienza presso la Caritas di Macerata sia stata più importante, per il mio lavoro, dei quattro anni trascorsi a studiare giurisprudenza. Il centro di Ascolto, alla fine degli anni Ottanta, era ospitato in una stanza della parrocchia di Santa Croce. Gli obiettori, impegnati durante il giorno in servizi differenti, condividevano un appartamento nel quartiere di Montalbano. Intorno a questo gruppo eterogeneo, e alla sua capacità di accoglienza un poco sgangherata, si era formata una piccola corte dei miracoli: gente venuta da chissà dove, uomini senza fissa dimora. Della cui vita non si conosceva nulla se non le storie da essi stessi raccontate. Come Giuseppe, pastore sardo, che parlava sempre della sua terra di origine. Oppure Nazzareno, uno spilungone dal marcato accento romano che affermava di essere una guardia penitenziaria in pensione, accoltellata a suo tempo da Renato Vallanzasca, e tanti altri. Si mangiava insieme. Si sperimentava la bellezza dell’ospitalità, la possibilità rischiosa di accogliere senza giudicare.

I valori appresi in quel periodo mi hanno accompagnato tutta la vita, sopratutto nel lavoro. Perché anche in un ufficio pubblico è possibile ascoltare ed accogliere le persone che versano in uno stato di grave difficoltà. E adoperarsi affinché questi atteggiamenti divengano parte di una visione organizzativa condivisa all’interno di una amministrazione.

Ripensavo a questi argomenti, mentre Mario Bettucci ripercorreva la storia dei primi trenta anni di vita del Centro di Ascolto e di Prima Accoglienza. Del suo discorso mi aveva colpito il fatto, da lui sottolineato, che il Centro in tutti questi anni era rimasto sempre aperto. Sempre, tranne il 3 febbraio dello scorso anno, giorno della sparatoria per le vie di Macerata. Quel sabato il portone di via Zara era rimasto chiuso. Non a causa della paura che aveva attanagliato la città, ma per proteggere i ragazzi di colore che si trovavano all’interno del Centro di Accoglienza. È sorprendente come una stessa vicenda, se osservata da un differente punto di vista, possa cambiare radicalmente significato. Forse i fatti di Macerata andrebbero raccontati immaginando di essere all’interno del Centro, dietro quel portone chiuso, attraverso lo sguardo sgomento dei suoi ospiti. Chissà che effetto farebbe, questo ribaltamento di prospettiva…

Ho sempre pensato che dovremmo riappropriarci della capacità di raccontare. Raccogliere storie, riflettere sul loro significato, farle diventare patrimonio condiviso. È un compito che non possiamo delegare a nessuno. Il motivo l’ha espresso Francesco de Gregori in una delle sue canzoni più belle: “La storia non si ferma davanti ad un portone, la storia entra dentro le stanze e le brucia, la storia dà torto e dà ragione. La storia siamo noi, queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare…”.

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